2+2 fa 5

2+2 fa 5. Anzi no: ci arrivo alla fine.

Ripartiamo.

5 moltiplicato per 4 fa 20. Ma fa anche 22, 24 e 32, e fa persino 12 e infiniti altri risultati.

 

Introduzione “filosofica”

Lo si può dimostrare anche col linguaggio matematico: qualsiasi osservazione (anche un’osservazione scientifica) non descrive la realtà in quanto tale (assunto che la realtà in quanto tale “esista” nel senso che noi attribuiamo a questo verbo), bensì una mera interpretazione di quel che ci è dato osservare con gli strumenti (occhi, immaginazione, logica, microscopi, linguaggi, etc…) che decidiamo di usare. Vale a dire che per osservare un fenomeno dobbiamo necessariamente usare degli strumenti, e per trasformare quanto osservato con un certo strumento in quello che noi chiamiamo “enunciato scientifico” dobbiamo obbligatoriamente inserire tale osservazione in un sistema interpretativo dato da assunti aprioristici, cioè da ipotesi che scegliamo arbitrariamente e che arbitrariamente riteniamo vere (non già perché qualcosa ne provi incontrovertibilmente la loro “verità”, bensì per avere una base di partenza da cui lavorare per dare un ordine al caos: in fondo, per certi versi, una base qualsiasi, scelta quasi come un atto di fede). Non è chiaro? Non c’è problema: ci arriveremo un passo alla volta.

La scienza è esattamente questo: un insieme di regole scelte dall’uomo per osservare e comunicare il mondo che ci circonda. Quella che noi chiamiamo scienza, e le sue regole, non esistono in natura: siamo noi che le abbiamo costruite per avere ordine dove l’ordine in partenza non c’è. E siccome il caos è qualcosa di enormemente faticoso da portarsi sulle spalle, perché ci lascia senza punti di riferimento e in balìa di eventi potenzialmente imprevedibili, noi umani tendiamo a inventarci dei sistemi logici in cui incastonare quelle parti di realtà che ci paiono “regolari”. A pensarci bene, lo facciamo da sempre e in tutti i modi possibili e immaginabili. Un esempio efficace di questo “incasellamento arbitrario” del mondo ce lo dà il modo in cui abbiamo creato le costellazioni in antichità. Quello che abbiamo fatto è molto semplice: in un dato momento (quando la luce del sole non era visibile) abbiamo usato i nostri strumenti biologici (gli occhi) per guardare cosa c’era sopra (il “cielo”), e abbiamo visto una serie di punti luminosi distribuiti in ordine casuale (proprio come appare a chiunque non conosca le costellazioni). Il caos, però, non ci era utile, e poi faceva paura: ci faceva sentire piccoli piccoli (un sentimento non a caso diffuso quando si guardano le stelle). Allora una notte qualcuno, disturbato da tanto caos, deve aver avuto il colpo di genio di provare a guardare quel caos “a pezzetti più piccoli” (si potrebbe dire “localmente”), creando un senso dove non c’era: così si è inventato l’orsa maggiore e l’orsa minore, la croce del sud e Orione. Cioè: 1) ha individuato le stelle che vedeva meglio, quelle che parevano più luminose; 2) le ha “disegnate” da qualche parte; 3) dopo averle disegnate le ha suddivise in gruppi; 4) all’interno dei singoli gruppi ha unito i punti in un modo “significativo”, cioè un modo che fosse per lui “memorizzabile” e “riconoscibile” (ovvero “dotato di senso”), e così facendo ha dunque stabilito delle “relazioni” tra quei punti; 5) a questo punto ha potuto identificare le singole stelle delle varie costellazioni (ad esempio: “la terza stella della cintura di Orione”) e le ha potute riconoscere e “seguire” nei loro movimenti notte dopo notte.

Si nota facilmente che tutto questo è un processo arbitrario, e in quanto tale creativo: le costellazioni non “sono” nel mondo in quanto tali, siamo noi che le abbiamo create per mettere in ordine. Due persone diverse, guardando lo stesso cielo, disegnerebbero costellazioni diverse: ovvero sceglierebbero “pezzetti di cielo” diversi e li organizzerebbero in modo diverso. E l’unico motivo per cui oggi adottiamo delle costellazioni “universali” è perché ci siamo messi d’accordo su queste scelte arbitrarie (che però tali restano, anche se condivise).

Qualcuno obietterà che le costellazioni, “infatti”, non sono qualcosa di “scientifico” (o meglio, di “oggettivo”): che le galassie lo sono, non certo le costellazioni. Ma questa sarebbe un’affermazione sciocca e superficiale, tant’è che la stessa Unità Astronomica Internazionale, una delle più alte autorità mondiali in campo astronomico, adotta una lista ufficiale di costellazioni basate sulle stelle come ci appaiono dal sistema terrestre. Del resto, sarebbe stato difficile studiare il “cielo” come lo conosciamo oggi (una composizione di galassie) se non avessimo prima ragionato in termini di costellazioni. Infatti, per individuare le galassie è necessario notare che quei punti luminosi si muovono nel cielo in un certo modo, che mantengono tra loro date distanze, eccetera; e sarebbe stato difficile cogliere questi movimenti e queste distanze senza disporre di quei procedimenti (arbitrari) seguiti dall’uomo in antichità, ovvero quelle 5 operazioni esposte più sopra. Cioè l’intero processo conoscitivo che ci ha portati alla definizione delle galassie e a quelle che chiamiamo “distanze oggettive” tra le stelle è stato possibile solo dopo aver stabilito delle relazioni arbitrarie tra quei punti luminosi caoticamente dispersi nel “cielo”. Ma quelle relazioni non erano date “in natura”: noi le abbiamo create, noi vi abbiamo dato importanza e significato, noi le abbiamo usate per mettere ordine.

A molti queste parranno “parole astratte”, lontane dalla “realtà” e soprattutto dalla “scienza”. Ma persino la più “pura” e ancestrale delle scienze, quella che alcuni definiscono “il linguaggio più rigoroso che esista”, il più “razionale” e il più “logico”, quello “parlato dalla natura” – ovvero la matematica – è un campo soggetto al paradigma di turno. Vale a dire, tornando all’origine, che 5 moltiplicato per 4 fa 20. Ma fa anche 22, 24 e 32, e fa persino 12 e infiniti altri risultati. Il risultato dipende dal paradigma adottato, dalla “base di partenza” arbitrariamente scelta e appositamente creata per dare ordine al caos; con buona pace dei fautori della “oggettività” non meglio definita.

 

Digressione sui paradigmi

Per chi non ha familiarità col termine, un paradigma può essere definito come un sistema di regole. Potremmo dire, per fare un esempio che sia familiare a tutti, che nel mondo delle carte da gioco italiane, “Briscola” sia un paradigma e “Scopa” sia un altro. Le carte, pur restando le stesse, non hanno gli stessi valori in un gioco e nell’altro, e anche le relazioni tra loro cambiano a seconda del paradigma di riferimento: azioni che in un paradigma sono consentite ed hanno senso sono vietate o fallimentari nell’altro. È sciocco pensare ai paradigmi in termini di “uno è vero e l’altro è falso” oppure “uno è migliore dell’altro”. Per qualche motivo a qualcuno può piacere di più giocare a briscola e a qualcuno giocare a scopa, ma non ha senso dare un giudizio “morale” o “di verità” sui due giochi. Ovviamente, fondare un paradigma non è semplice come non è semplice inventare un nuovo gioco di carte; soprattutto, non è semplice inventare un gioco divertente e al tempo stesso con regole chiare e memorizzabili, ovvero un gioco che abbia successo. Per i paradigmi funziona un po’ nello stesso modo.

Dato un accenno di definizione, passiamo a sottolineare che i paradigmi sono una brutta bestia. Nel senso che normalmente, soprattutto quelli molto condivisi e adottati da lungo tempo, operano sotto la soglia della coscienza: tutti noi facciamo uso di una quantità imponente di paradigmi di cui non siamo affatto consapevoli (e che spesso persino neanche conosciamo in quanto tali!). Lo facciamo quando parliamo o scriviamo correttamente (paradigma della lingua italiana), quando cantiamo o suoniamo (paradigma delle scale musicali e delle armonie), quando calcoliamo quanto resto ci devono dare al bar (paradigma decimale), e qualsiasi ragionamento facciamo (sia di natura politica, emotiva, scientifica, estetica) è basato su un qualche paradigma di riferimento che ci consente di “leggere il mondo” e di esprimere un giudizio o un’opinione.

In breve, i paradigmi sono quelli che ci permettono di dare un senso al mondo che ci circonda, ma sono una brutta bestia perché li usiamo senza accorgercene, dimenticando che l’osservazione della realtà è un processo creativo, e nessuno strumento di osservazione è davvero “passivo”, cioè capace di registrare la realtà in quanto tale e in quanto tale comunicarla. Del resto, se anche un tale strumento esistesse, è probabile che riprodurrebbe proprio quel caos da cui fuggiamo come dalla morte. E allora noi troveremmo il modo di interpretare quel caos in una maniera che ce lo renda più prevedibile e controllabile. Il fine non è “la verità”: è la nostra serenità.

 

La dimostrazione matematica(1)Le spiegazioni matematiche che seguono sono una rielaborazione delle prime pagine di Che cos’è la matematica? Introduzione elementare ai suoi concetti e metodi, di Richard Courant e Herbert Robbins. Devo a loro, e a chi mi ha regalato l’opera, lo spunto per la stesura di queste pagine. Il sistema a base “diciotto” di cui parlerò, e le relative tabelle, sono opera mia.

Dicevo, insomma, che 5 moltiplicato per 4 fa 20. Questo è senz’altro vero: è vero nel sistema decimale, che è il nostro paradigma implicito (quello che adottiamo senza saperlo o pensarci, perché è l’unico cui siamo stati familiarizzati da quando eravamo alti quanto una sedia). Eppure 5 moltiplicato per 4 fa anche 22, 24 e 32, e fa persino 12 e infiniti altri risultati (può fare il risultato che scegliete voi, basta costruire il sistema – o “paradigma” – adatto). Fa 22, per esempio, in un paradigma “a base nove” (sistema nonario), fa 24 in un paradigma “a base otto” (sistema ottale), fa 32 in un paradigma “a base sei” (sistema senario), e fa 12 in un paradigma “a base diciotto”. E in tutti questi altri paradigmi non è assolutamente vero che 5 moltiplicato per 4 fa 20: a dirlo si risulterebbe degli asini.

Vi prego, non abbandonate la barchetta: è matematica, ma non è difficile. Ve la spiego io, mi assumo la presunzione di spiegarvela meglio di altri. E mandatemi al diavolo se risulto incomprensibile, o chiedete chiarimenti.

Il nostro si chiama sistema “decimale” perché è un sistema “a base dieci(2)Mi trovo costretta a scrivere “dieci” in lettere perché il simbolo “10” ha quel valore che noi gli attribuiamo solo all’interno di un sistema decimale. Tecnicamente, sulla base di quello che spiegherò più avanti, avrei potuto scrivere che un sistema decimale è un sistema “a base α”. Il problema è che, anche se dal mio punto di vista avrebbe avuto più senso, al lettore quel simbolo sarebbe risultato incomprensibile.”, ovvero basato su dieci cifre: queste sono 0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8 e 9. Nello specifico, si tratta di nove “valori di unità” e di un “valore di nullità” (lo zero). Qualsiasi quantità noi vogliamo esprimere, lo facciamo usando quelle sole dieci cifre. Non una di più, non una di meno. “Decimale” significa anche che ogni dieci unità possiamo farne un pacchetto a sé stante: quando diciamo che 1+1+1+1+1+1+1+1+1+1 (che possiamo anche scrivere “9+1”) fa 10 stiamo dicendo che la somma di quelle unità fa una decina (1) e zero unità (0): ovvero 10(3)In questo modo le cifre assumono un valore diverso (unità, decine, centinaia, migliaia…) a seconda della loro posizione nel numero: chiamiamo questo modo di organizzare le cifre e il loro valore “sistema posizionale”.. Se a quella decina aggiungiamo una ulteriore unità, avremo una decina (1) e una unità (1): ovvero 11. Se poi sommiamo dieci decine, raggiungeremo le centinaia (10 volte 10, ovvero 102). Così, il numero 257 può essere espresso come 2 centinaia, 5 decine e 7 unità (257). Ovvero, matematicamente parlando, 2⋅102 + 5⋅10 + 7⋅1 = 257. E così per le migliaia: 3.409 = 3⋅103 + 4⋅102 + 0⋅10 + 9⋅1. Qualsiasi calcolo facciamo all’interno di questo paradigma, per quanto lungo e complesso sia, si basa su quelle dieci cifre e si risolve secondo le regole della tavola pitagorica (le “tabelline” imparate a scuola) e di un’analoga tavola di addizione. Ma quelle dieci cifre non esistono “in natura”: sono il frutto di un nostro costrutto, un significato che attribuiamo all’esistente per orientarci. Abbiamo inventato delle parole (dei suoni) e le abbiamo assegnate a delle precise “quantità”, e abbiamo ordinato queste parole in modo che esprimessero una crescita, e abbiamo dichiarato che la distanza tra queste quantità progressive fosse sempre la stessa (cioè la distanza tra 0 e 1 è la stessa che tra 1 e 2 e tra 2 e 3 e via dicendo). Avremmo potuto inventarcene cinque, di cifre, oppure dodici, o trentanove. Infatti il sistema decimale non è l’unico usato al mondo: un altro sistema molto diffuso è per esempio il sistema binario usato in informatica, che si avvale di sole due cifre (0 e 1); oppure, in campo musicale, si usa abitualmente un sistema settenario, in cui le sette cifre, anziché essere rappresentate con i simboli 0, 1, 2, 3, 4, 5 e 6 sono rappresentate con i simboli do, re, mi, fa, sol, la e si (peraltro è un sistema sensibilmente più complesso per via del fatto che la distanza tra le “cifre musicali” non è sempre la stessa). Perché abbia trionfato proprio il sistema decimale non dipende da come effettivamente “è” la realtà: è frutto in parte del caso e in parte probabilmente del fatto che, salvo sfortunate eccezioni, ogni essere umano dispone sempre, in ogni circostanza, di dieci dita con cui potersi facilitare i calcoli (rappresentandoli fisicamente). Ovvero è dato dalle nostre caratteristiche, e non dalle caratteristiche “della realtà” osservata.

Dunque, se nel paradigma “a base dieci” dire che 5 moltiplicato per 4 fa 12 è una corbelleria, è invece assolutamente corretto nel paradigma “a base diciotto”. Ve lo dimostro con l’aiuto di una tavola pitagorica riadattata all’occorrenza. Per creare un sistema “a base diciotto” bisogna prima inventare diciotto cifre. Per le prime dieci, useremo le tradizionali cifre da 0 a 1, per le restanti otto useremo le prime otto lettere dell’alfabeto greco. Non è importante che siano lettere: anche quelle che noi chiamiamo “cifre” sono in realtà lettere (uno, due, tre…) cui abbiamo dato un significato simbolico(4)Del resto, è utile sottolinearlo: anche le cifre, come le lettere, sono dei simboli. (in questo caso numerico). Dunque queste diciotto cifre saranno: 0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, α (alfa), β (beta), γ (gamma), δ (delta), ε (epsilon), ζ (zeta), η (eta), θ (teta).

Quello che faremo è in realtà molto semplice: costruiremo una tavola pitagorica che rappresenti le “tabelline” che dovrebbe capire e imparare chi volesse usare questo sistema “a base diciotto”. Dunque creeremo una tabella in cui nella colonna e nella riga esterne sono indicate le nostre diciotto cifre in ordine crescente (tab. 1). L’incrocio di una colonna e una riga rappresenta la moltiplicazione delle cifre legate a quella colonna e quella riga, proprio come accade nella tavola pitagorica classica.

 

Tab. 1 - Tavola di moltiplicazione a base "diciotto"

 

Procedendo da sinistra verso destra, dall’alto verso il basso, vedremo che le prime celle (i primi risultati delle moltiplicazioni) coincidono con quelli cui siamo abituati, perché le prime cifre di questo sistema sono le stesse che usiamo quotidianamente. Molto presto, però, le cose cambiano. Se 2⋅5, nel nostro sistema decimale, fa inequivocabilmente 10, nel caso di questo sistema “a base diciotto” fa invece α (alfa), e da quel punto in poi la tabellina continua secondo una logica all’apparenza completamente estranea a quella cui siamo abituati. Tuttavia, a ben guardare, la logica è esattamente la stessa che usiamo nel nostro sistema decimale. 2⋅5, infatti, significa esattamente “5 volte 2”, e può pertanto essere espressa come un’addizione: 2+2+2+2+2 (appunto, 5 volte 2).

Ricordate quando abbiamo affrontato il problema di 9+1? Ci siamo scontrati con il fatto di non avere a disposizione un simbolo (l’undicesima cifra) per rappresentare la quantità “dieci unità” (9+1). Per superare questo scoglio, abbiamo preso quelle 9+1 unità e ne abbiamo fatto un “pacchetto” che abbiamo chiamato “decina”. Per esprimerlo col linguaggio dei simboli, abbiamo descritto la quantità “dieci” (9+1) come una decina (1) e zero unità (0): 10.

In un sistema “a base diciotto”, invece, nello svolgere l’operazione 2⋅5 (o 9+1), non troviamo scogli, perché disponiamo dell’undicesima cifra (α) che ci consente di rappresentare la quantità “9+1 unità” (come illustrato in tab. 2). E così possiamo continuare ad aggiungere unità, una dopo l’altra, ottenendo β, γ, δ… fino ad arrivare a θ, ovvero la diciottesima e ultima cifra del sistema “a base diciotto”: quella cifra dunque che rappresenta la quantità “diciassette” (anzi, dovremmo dire “η+1”). È da questo punto in poi che sorge il problema che abbiamo già affrontato nel sistema decimale per risolvere l’operazione 2⋅5. Nel sistema “a base diciotto”, se vogliamo aggiungere a θ una unità, non abbiamo infatti la diciannovesima cifra che possa simboleggiarne il risultato. Anche in questo caso ci viene in aiuto il sistema “posizionale”, cioè quell’operazione di “impacchettare” la quantità (in questo caso) “diciotto unità” (o θ+1). In modo analogo a come ho fatto per il sistema decimale, quando svolgo l’operazione θ+1 (necessaria, per esempio, per trovare il risultato, in tab. 1, di 2⋅9) faccio un “pacchetto”, in questo caso di diciotto unità, che chiamerò “diciottina”. E scriverò il risultato come “una diciottina” (1) e “zero unità” (0): 10. In questo modo, si è creato un intero sistema posizionale “a base diciotto” che può essere utilizzato per risolvere qualsiasi operazione, dalla più semplice alla più complessa.

 

Tab. 2 - Tavola di addizione a base "diciotto"

 

Il problema così risolto nel sistema decimale e in quello “a base diciotto” emerge ogni volta che, in un qualsiasi sistema numerico, si voglia aggiungere una unità all’ultima cifra prevista dal sistema: ogni volta che contando si raggiunge l’ultima cifra esistente, si può formare un “pacchetto”, dargli un nome e spostarlo a sinistra, per poi ricominciare a contare dalla prima cifra del sistema di riferimento, fino a concludere l’operazione. A quel punto la cifra finale trovata (che rappresenta le unità) può essere scritta alla destra del pacchetto: è lo stesso procedimento che adottiamo quando svogliamo le “operazioni in colonna” e “riportiamo” una cifra. Va da sé che qualsiasi sistema formato in questo modo, alla fine, non potrebbe che chiamarsi un sistema “a base 10”, dove il simbolo “10” rappresenta di volta in volta un valore differente.

Il fatto che un sistema “altro” da quello decimale, come nel caso del sistema “a base diciotto”, non ci sia familiare non significa né che sia meno valido né che sia necessariamente “più difficile”(5)È vero che un sistema “a base diciotto” come quello proposto nelle tabelle prevede più cifre di uno “a base dieci”, ma ne prevede comunque meno di un qualsiasi sistema alfabetico, per esempio, che a quanto pare non abbiamo problemi a memorizzare.. Anzi, dirò di più: tornando ad osservare la tabella “a base diciotto”, che a prima vista sembra così diversa dalla “nostra” tavola pitagorica, potremo notare alcune significative somiglianze. Per esempio: pensiamo alla tabellina del 5 come la conosciamo noi (5, 10, 15, 20…). La posizione delle unità può assumere solo due valori che si alternano tra loro: 5 oppure 0, dove 5 è la “cifra di mezzo” tra le cifre disponibili nel sistema decimale e 0 è la prima. Questo succede perché nel sistema decimale 5 è quella cifra che sommata a se stessa dà esattamente un “pacchetto” (la “decina”). Oppure ancora pensiamo alla tabellina del 9 (9, 18, 27, 36…): viene quasi automatico notare che il valore assegnato alle unità diminuisce progressivamente di 1, mentre quello assegnato alle decine aumenta progressivamente di 1. Questo succede perché nel sistema decimale 9 è l’ultima cifra, ovvero “un quasi pacchetto”: una decina “meno” una unità (6)Ho scelto le tabelline del 5 e del 9 perché presentano delle regolarità molto appariscenti e “immediate” (brevi), ma va notato che tutte le tabelline presentano delle regolarità, che possono essere più o meno complesse e “lente” (lunghe).. Guardiamo ora, invece, la tavola di moltiplicazione “a base diciotto” (tab. 1). L’equivalente della tabellina del 5, in questo caso, è la tabellina del 9, perché nel sistema “a base diciotto” è il 9 che sommato a se stesso dà esattamente il “pacchetto” (la “diciottina”). Infatti, osservando la tabellina del 9 nel sistema “a base diciotto”, vedremo che anche in questo caso la posizione delle unità può assumere solo due cifre che si alternano tra loro, e anche in questo caso sono la cifra “di mezzo” (9) e la prima cifra (0): vedremo quindi che la tabellina del 9 “a base diciotto” suona come “9, 10, 19, 20, 29, 30…”. E se osserviamo l’equivalente “a base diciotto” della “nostra” tabellina del 9, ovvero la tabellina del θ, vedremo che anche nel sistema “a base diciotto” il valore delle unità cala progressivamente di 1 mentre quello delle “diciottine” aumenta di 1: “θ, 1η, 2ζ, 3ε, 4δ, 5γ…”.

 

Tab. 1 - Tabelline del 9 e del θ

 

Il risultato di analogie di questo tipo (ce ne sono anche altre) è che si può facilmente passare da un sistema all’altro, e verificare così più agevolmente di aver svolto correttamente le operazioni. Dicevo infatti più su che un qualsiasi numero, nel nostro sistema posizionale decimale, può essere espresso in una formula del tipo “2⋅102 + 5⋅10 + 7⋅1 = 257”. Ovvero, con una formula un po’ più generale, A⋅102 + B⋅10 + C⋅1 = ABC(7)Qui non posso spiegare tutto, ma la formula completa e formalmente corretta sarebbe an⋅10n + an-1⋅10n-1 + … + a1⋅10 + a0 = anan-1an-2…a1a0.. Nel sistema “a base diciotto” può essere fatta esattamente la stessa operazione, e se vorremo sapere a quale numero “decimale” corrisponde un qualsiasi numero “a base diciotto” basterà ricordarsi che si sta operando, appunto, in un sistema “a base diciotto”, e non “a base dieci”. Quindi, per esempio, prendiamo una cella della tavola di moltiplicazione “a base diciotto” da me proposta (tab. 1): quella della moltiplicazione tra 7 e 8, il cui risultato “a base diciotto” è 32. Se voglio tradurre quel 32 “a base diciotto” nell’equivalente del sistema decimale, posso usare una formula come quella sopra richiamata (A⋅102 + B⋅10 + C⋅1 = ABC) ricordando però che non devo più ragionare in termini di “decine” bensì di “diciottine”: quel 32 significa esattamente “3 diciottine” e “2 unità”, che tradotto nel sistema decimale equivale a 3⋅18 + 2⋅1, che, sempre nel sistema decimale, fa 56. E 56 è proprio il risultato, nel sistema decimale, dell’operazione “7⋅8” che nel sistema “a base diciotto” dà 32. Queste operazioni di conversione (o “traduzione”) possono essere svolte su tutti i numeri e, naturalmente, in entrambe le direzioni.

A questo punto lo posso dire chiaro e tondo: non ho scelto il sistema “a base diciotto” a caso. L’ho scelto perché volevo ardentemente che 5 moltiplicato per 4 facesse esattamente 12, affermazione che fa trasalire ogni fanatico della scienza. Così ho guardato quel 12 (“un pacchetto + 2 unità”) e mi sono chiesta: qual è quella quantità (quel “pacchetto”) che sommato a 2 fa 20 (ovvero il risultato in termini decimali di 5⋅4)? La risposta, in questo caso, era anche relativamente facile: quella quantità è “diciotto”. E quindi per fare sì che 5⋅4 faccia 12 basta adottare un sistema “a base diciotto”, senza stravolgere null’altro(8)A questo punto è doverosa una precisazione sui “paradigmi”, che possono essere visti come un sistema multidimensionale o a cerchi concentrici. Qui sto parlando dei paradigmi come se fossero delle matrioske infilate una dentro l’altra, per cui ci sono paradigmi “più grandi” che contengono al loro interno diversi paradigmi “più piccoli”, e viceversa paradigmi “più piccoli” che sono contenuti in paradigmi “più grandi”. In questo senso, il paradigma “a base diciotto” e quello “a base dieci” sono dei paradigmi “piccoli”, che si inseriscono all’interno di un più grande paradigma che è la matematica come la conosciamo oggi (con il suo sistema di relazioni interno e dunque con le sue regole). La “traduzione” tra i due paradigmi numerici è relativamente facile perché fanno parte di un unico paradigma più ampio, ma nulla osta a cambiare le cose più radicalmente, “stravolgendo” il paradigma “più grande” anziché quello “più piccolo”. Naturalmente, per modificare le matrioske più grandi ci vorrebbe un lavoro molto più arduo e complesso di quello svolto in queste pagine: un lavoro che richiederebbe anni, se non secoli, per essere messo a punto..

Va da sé che, ad essere onesti, avrei potuto prendere anche altre “scorciatoie”. Per esempio, sarei potuta rimanere all’interno del sistema decimale cambiando semplicemente valore (o “ordine”) a qualche simbolo. Così, avrei potuto decidere che le cifre anziché essere “0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9” fossero invece “2, 0, 1, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9”: anche in questo caso, 5 moltiplicato per 4 fa 12. E anche in questo caso si potrebbe fare la “prova” riportando il numero in forma decimale “classica” (basta ricordarsi che il 2, lo 0 e l’1 del sistema “alternativo” corrispondono rispettivamente allo 0, all’1 e al 2 del sistema “classico”).

 

2+2 fa 5

Chiaramente, una volta che si vedono le cifre per quello che sono (simboli), qualsiasi affermazione può essere considerata “vera”, nel giusto sistema di riferimento, nel giusto paradigma. E allora quel “2+2 fa 5” che tanto fa rabbrividire gli ammiratori di Orwell assume tutto un altro significato. In effetti, 2 più 2 può fare tranquillamente 5: basta scambiare di posto il 4 e il 5. Cioè basta “rinominare” il mondo, dargli nuovi simboli, osservarlo con altre lenti, adottare un altro linguaggio e le sue regole. Quello che è invece impossibile (almeno nel mondo “deterministico” della logica e della razionalità) è che 2+2 faccia contemporaneamente 4 e 5 (ma qui, a quanto pare, la meccanica quantistica avrebbe qualcosa da ridire).

A questo punto qualcuno si alzerà in piedi e dirà: “Però così siamo nel relativismo assoluto, qualunque idiozia può essere affermata!”. Calma. Ogni cosa può essere affermata, ed essere affermata in modo che abbia senso, e cioè che risulti “vera”. Ma perché un’affermazione risulti “vera” deve rispettare le regole del paradigma cui si rifà, e se non è un paradigma noto deve esplicitarne le regole e il significato dei simboli che adotta. Quindi, se volete davvero “fare i superiori” e mettervi al petto la medaglietta di “quelli che sanno”, quando qualcuno vi dice che 5 moltiplicato per 4 fa 12, anziché sbeffeggiarlo dovete chiedergli se sta operando nel sistema decimale corrente o in qualche altro sistema, e nel caso farvi dire quale, studiarlo e verificare se quell’affermazione è corretta o meno all’interno del sistema in esame. Altrimenti rischiate di passare per asini, a prescindere dalla “veridicità” o meno dell’affermazione che vi pare ridicola.

Nella società descritta da Orwell il “vero” problema del fatidico “2+2 fa 5” non è l’affermazione in sé, ma il fatto che quell’affermazione debba essere accettata in modo acritico e passivo, senza spiegazioni, senza un paradigma di riferimento che gli dia senso. In ogni suo aspetto, la società del “1984” è una società che distrugge qualsiasi accenno di paradigma: il fatto che il passato venga in continuazione cancellato e riscritto dall’autorità senza che venga fornita alcuna spiegazione (alcun “senso”) al cambiamento (che non viene neanche registrato in quanto tale, perché viene negato nel momento in cui viene agito), toglie ogni parvenza di “stabilità” al sistema, rendendo il mondo del 1984 del tutto “imprevedibile” e “caotico”, dove caos significa proprio assenza di regole e dunque assenza di paradigmi. Quello che succede è che viene meno il “legante”, quel sistema più o meno stabile di regole più o meno coerenti che chiamiamo “paradigma”. Qualcuno potrebbe dire che quello del 1984 è un relativismo portato all’eccesso, un “relativismo assoluto”, un continuo rimestio di paradigmi. C’è da chiedersi, tuttavia, se un sì fatto relativismo sia davvero ancora un “relativismo”: dopotutto per esserci relativismo dev’esserci alternativa, e dev’esserci una qualche relazione più o meno stabile tra due o più elementi. Nel mondo di Orwell, invece, pare di vedere il totalitarismo più conclamato, e lo sgretolarsi incessante di ogni “legame di senso”. Il mondo di Orwell è un mondo in cui l’uomo è costretto a vedere il cielo ogni giorno con un nuovo sistema di costellazioni che nessuno mai si degna di spiegare, rendendo impossibile quell’operazione di “seguire” una stella notte dopo notte per vedere come si comporta in relazione alle altre. Nello svolgersi del tempo, il 1984 è un mondo senza costellazioni, in cui nulla può essere “fissato” e dunque osservato.

I paradigmi, come già detto, sono una brutta bestia, ma sono necessari: non per cercare “la verità”, ma per trovare serenità, per “inventarsi” un ordine nel caos e illudersi di averlo solo “scoperto”. Ma è importante ricordarsi che gli sguardi possibili sul mondo sono infiniti, e ciascuno di questi coglie qualcosa. I paradigmi servono per dare senso al mondo, ma non devono diventare paraocchi che ci impediscono di contemplare, comprendere e all’occorrenza adottare paradigmi alternativi. Le dimostrazioni matematiche più su proposte mostrano proprio questo: che è possibile dialogare tra paradigmi diversi, costruire un senso comune e, dove si fallisce, tollerarsi nell’incomprensione. Perché il fine, giova ripeterlo ancora una volta, non è “la verità” ma la nostra serenità. A volte quando qualcuno fa un’affermazione che ci risulta stupida, priva di senso o incomprensibile, è perché sta adottando un altro paradigma, e basterebbe chiedere delucidazioni in merito per rivalutare le sue parole. Ovviamente, uscire dal proprio paradigma di riferimento per entrare in uno che non abbiamo mai usato prima richiede impegno: quello stesso impegno richiesto per comprendere il sistema “a base diciotto” proposto qui sopra. Uno “scienziato” non si farebbe certo scoraggiare.

 



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Note:
1 Le spiegazioni matematiche che seguono sono una rielaborazione delle prime pagine di Che cos’è la matematica? Introduzione elementare ai suoi concetti e metodi, di Richard Courant e Herbert Robbins. Devo a loro, e a chi mi ha regalato l’opera, lo spunto per la stesura di queste pagine. Il sistema a base “diciotto” di cui parlerò, e le relative tabelle, sono opera mia.
2 Mi trovo costretta a scrivere “dieci” in lettere perché il simbolo “10” ha quel valore che noi gli attribuiamo solo all’interno di un sistema decimale. Tecnicamente, sulla base di quello che spiegherò più avanti, avrei potuto scrivere che un sistema decimale è un sistema “a base α”. Il problema è che, anche se dal mio punto di vista avrebbe avuto più senso, al lettore quel simbolo sarebbe risultato incomprensibile.
3 In questo modo le cifre assumono un valore diverso (unità, decine, centinaia, migliaia…) a seconda della loro posizione nel numero: chiamiamo questo modo di organizzare le cifre e il loro valore “sistema posizionale”.
4 Del resto, è utile sottolinearlo: anche le cifre, come le lettere, sono dei simboli.
5 È vero che un sistema “a base diciotto” come quello proposto nelle tabelle prevede più cifre di uno “a base dieci”, ma ne prevede comunque meno di un qualsiasi sistema alfabetico, per esempio, che a quanto pare non abbiamo problemi a memorizzare.
6 Ho scelto le tabelline del 5 e del 9 perché presentano delle regolarità molto appariscenti e “immediate” (brevi), ma va notato che tutte le tabelline presentano delle regolarità, che possono essere più o meno complesse e “lente” (lunghe).
7 Qui non posso spiegare tutto, ma la formula completa e formalmente corretta sarebbe an⋅10n + an-1⋅10n-1 + … + a1⋅10 + a0 = anan-1an-2…a1a0.
8 A questo punto è doverosa una precisazione sui “paradigmi”, che possono essere visti come un sistema multidimensionale o a cerchi concentrici. Qui sto parlando dei paradigmi come se fossero delle matrioske infilate una dentro l’altra, per cui ci sono paradigmi “più grandi” che contengono al loro interno diversi paradigmi “più piccoli”, e viceversa paradigmi “più piccoli” che sono contenuti in paradigmi “più grandi”. In questo senso, il paradigma “a base diciotto” e quello “a base dieci” sono dei paradigmi “piccoli”, che si inseriscono all’interno di un più grande paradigma che è la matematica come la conosciamo oggi (con il suo sistema di relazioni interno e dunque con le sue regole). La “traduzione” tra i due paradigmi numerici è relativamente facile perché fanno parte di un unico paradigma più ampio, ma nulla osta a cambiare le cose più radicalmente, “stravolgendo” il paradigma “più grande” anziché quello “più piccolo”. Naturalmente, per modificare le matrioske più grandi ci vorrebbe un lavoro molto più arduo e complesso di quello svolto in queste pagine: un lavoro che richiederebbe anni, se non secoli, per essere messo a punto.

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