Alla fine si è scoperto che Noa non è stata suicidata dal suo Stato e dai suoi medici ricorrendo all’eutanasia, ma che si è lasciata morire di fame in casa sua, con il consenso dei genitori, dopo che i medici olandesi le hanno negato la possibilità della “buona morte” perché troppo giovane per compiere una scelta del genere: aveva solo 17 anni.
Questa, almeno, è l’ultima versione fornita dai maggiori quotidiani italiani, che dopo aver scritto che Noa aveva ricorso all’eutanasia in seguito a una depressione indotta dalle violenze sessuali subite da bambina, dopo un giorno intero hanno alla fine “rettificato” la notizia, presentando ai lettori tutt’altra versione. A dire il vero, in questo caso, “rettifica” è un parolone, dato che nessuno si è pubblicamente preso la responsabilità di ammettere di aver commesso un grave errore e si è scusato con i cittadini per questa “fake news“, preferendo ricorrere a un semplice cambiamento dei titoli e degli articoli che tanto somiglia a ciò che accadeva nel mondo descritto da Orwell in 1984 (il Grande Fratello non può sbagliare).
La vicenda di Noa solleva rilevanti questioni, e di vario genere, che sarebbe importante affrontare pubblicamente in un dibattito aperto e orientato all’ascolto. La prima, più evidente e già accennata, riguarda la fiducia che possiamo o non possiamo riporre nei media (anche quelli più “autorevoli”) quando ascoltiamo o leggiamo una notizia. Non è la questione che voglio affrontare adesso, sebbene sia di importanza capitale in un mondo che si vuole “democratico” e “libero”, “civile” e “informato”. Tuttavia, dato che mi aspetto una certa attenzione, nei prossimi giorni, su questo aspetto dell’episodio (il Fatto Quotidiano ha già intonato il la), preferisco concentrare la mia attenzione su altro: sull’eutanasia, su come essa è trattata nella nostra società e su come cambia il nostro mondo e le nostre vite.
Non sono d’accordo con chi, sul Fatto Quotidiano, ha argomentato che «l’unica notizia di pubblico interesse» in questa vicenda sia l’«epic fail» dei giornalisti di mezzo mondo, con chi sostiene che dal momento in cui la morte di Noa non è avvenuta, come sembra, per eutanasia, ma in luogo privato e con pratiche private, allora non è di pubblico interesse. Nel migliore dei casi stiamo parlando (sempre che le informazioni dei giornali siano veritiere) di una diciassettenne che si è lasciata morire di fame e di sete a causa di una depressione apparentemente impossibile da sconfiggere, con il consenso (tacito o meno) dei genitori, dopo aver fatto richiesta (vana) di eutanasia. Se tutto ciò non è di interesse pubblico c’è da chiedersi cosa lo sia, e cosa ci sia di “pubblicamente interessante” in tutte le pagine di cronaca nera sfornate quotidianamente dai media e che tanto sono care ai giornalisti (provate a chiedere a un cronista di togliere una pagina di cronaca nera per far spazio a più articoli culturali o politici: strabuzzerà gli occhi o si metterà a ridere nove volte su dieci).
Per valutare l’episodio di Noa, innanzi tutto, è utile osservare le reazioni che si sono manifestate sulla rete. Ciò che colpisce è che, di fronte alla notizia di una diciassettenne che per uscire dalla depressione ha ricorso all’eutanasia con il consenso e l’aiuto dei medici e, in generale, delle istituzioni statali, c’è stato qualcuno che non ha “battuto ciglio”. O meglio: che ha visto come una conquista il fatto che in circostanze simili si possa legalmente ricorrere all’eutanasia, che lo Stato ti assista nel suicidio. Questo non è poco, perché le leggi e le regole della nostra società sono decise dalle persone e dalle loro visioni del mondo, che, quando sono in maggioranza o in altro modo preponderanti, vengono assunte come guide per la costruzione e decostruzione delle nostre società e delle nostre regole comuni.
Il fatto che la nostra cultura abbia prodotto opinioni favorevoli all’eutanasia in casi del genere non è di poco conto. E questo mi porta al secondo punto: la nostra cultura (o, se vogliamo, la cultura olandese, che comunque non è tanto distante, ad esempio, da quella italiana) ha prodotto una ragazza e dei genitori che contemplano l’eutanasia come possibile (anzi, a conti fatti, come unica) soluzione per liberarsi di una brutta depressione. No, non è cosa di poco conto, e dovrebbe farci riflettere a fondo sulle scelte che, collettivamente, stiamo compiendo.
Non ho alcuna intenzione di sminuire i problemi psicologici (come è il caso della depressione) o stilare una classifica dei mali e delle sofferenze che ci riserva la vita: è cosa inutile, macabra e in fin dei conti ridicola. Certo, però, mi sento di sottolineare il fatto che, ad esempio, non è la stessa cosa ricorrere all’eutanasia di fronte a una malattia terminale per cui non esistono cure e non si prevede che esisteranno nel breve/medio periodo, oppure ricorrervi in caso di depressione, che resta pur sempre un disturbo da cui c’è la possibilità di uscire, sebbene attraverso un labirinto pieno di ostacoli in cui non sono previsti percorsi facili o standardizzati, che si possano intraprendere e completare ingoiando una pillola o osservando una dieta.
Eppure c’è chi tratta le due cose come paragonabili, c’è chi pensa che la morte possa rappresentare una soluzione in tutti i casi, se la persona malata vuole morire ed è consapevole di ciò che questo significa. Di più: ci sono due genitori (stando a quel che riportano i giornali, è il caso di sottolinearlo) che avrebbero dato il consenso per applicare l’eutanasia alla loro figlia diciassettenne perché depressa: la loro figlia, quella che hanno messo al mondo, quella che li proietta nel futuro. Ci sono due genitori che hanno pensato che l’unico modo per far uscire la loro figlia dalla depressione fosse lasciarla morire di fame, che fosse giusto assecondare il suo desiderio di morte serena, di sonno eterno senza incubi e dolore, senza lacrime e depressione.
Noa e i suoi genitori non sono alieni venuti dallo spazio. Sono nati e cresciuti nel nostro mondo, nella nostra società: assimilando i nostri valori, ascoltando i nostri dibattiti, leggendo i nostri giornali, frequentando le nostre scuole, condividendo i nostri stili di vita. Ciò che loro hanno ritenuto giusto per Noa non piove dal cielo: in parte è un prodotto della nostra società, della nostra cultura. E che prodotto è? Che messaggio hanno tratto, Noa e i suoi genitori, dalla nostra cultura? Che aiuto ha dato loro la nostra “società del benessere”? L’aiuto a suicidare una ragazza. Di certo non l’aiuto a curarla, a farla star bene.
Se nella nostra società c’è chi “suicida” la figlia perché depressa, chi vede questa come una vittoria, chi non vi vede nulla di “pubblicamente interessante”, abbiamo un serio problema. Noa è vittima di questa cultura; ne sono vittime i suoi genitori; ne è vittima chi la ritiene una conquista civile; ne è vittima chi non vi vede nulla di pubblicamente rilevante. Ne siamo, in qualche modo, vittime tutti.
Allo stesso tempo, però, siamo tutti anche carnefici, tutti abbiamo suicidato Noa: siamo carnefici quando non pretendiamo un dibattito pubblico che sappia valorizzare le diverse campane; siamo carnefici ogni volta che trattiamo come “normale amministrazione”, come a-problematici, argomenti quali l’aborto o il fine-vita, nell’ingenua illusione che rimuovendo gli aspetti più spinosi dal dibattito pubblico, questi spariranno anche dalla realtà; siamo carnefici quando releghiamo ogni problema etico alla sfera individuale, in un relativismo assoluto e poco incline all’ascolto; siamo carnefici quando mettiamo il valore delle libertà individuali al di sopra di ogni altra cosa, guardando il dito (Noa ha potuto trovare pace) e ignorando la luna (se l’eutanasia è una “cura” per la depressione, allora sempre più gente vi ricorrerà, e ci si investiranno risorse, e le risorse – lo insegna la scienza – non sono infinite). Quale sarà il prossimo passo? Festeggiare la conquista di potersi suicidare con l’aiuto dello Stato se perdiamo il lavoro e non riusciamo ad arrivare dignitosamente a fine mese?
Abbiamo suicidato Noa, che era una ragazza cui la vita non aveva finora sorriso, ma che forse aveva diritto alla speranza di un futuro migliore. C’è solo da augurarsi che Noa non sia il primo di un lungo elenco di nomi.
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