Sulla scia delle lettere che ho scritto alla mia amica Gió in tema di differenze di genere e adozioni omosessuali, vorrei affrontare un altro argomento oggi molto divisivo e malamente dibattuto nello spazio pubblico, tentando di fare un po’ di chiarezza sulla cosiddetta “mozione anti-aborto” varata dalla Lega a Verona, nella speranza di ridare dignità a un dibattito che meriterebbe maggiore ponderatezza da parte di chi si esprime pubblicamente in merito. Prima di proseguire, dato che si tende sempre più a pre-etichettare le persone, attribuendo loro idee che non hanno espresso, voglio chiarire che ritengo che la possibilità di abortire legalmente e in tutta sicurezza sia una conquista civile cui la nostra società non può e non deve rinunciare, dato che l’alternativa è costringere le donne a farlo di nascosto, in condizioni igienico-sanitarie precarie che mettono a rischio la loro vita. Nessuno qui vuole “cancellare” la 194 e proibire l’aborto.
La mozione della Lega a Verona
Ce l’abbiamo tutti sulla bocca, tutti pronti a condannarla come retrograda, maschilista e chi più ne ha più ne metta. Ma, come al solito, in pochi si sono presi la briga di leggere la mozione in tema di «Iniziative per la prevenzione dell’aborto e il sostegno alla maternità». Ci è bastato leggere sui giornali che si tratta di una “mozione anti-aborto”, che finanzia quei cattivoni delle “associazioni pro-life”, per bollare un’intera mozione e i valori che porta con sé come “medievalismo bigotto”. Ma cosa prevede, esattamente, la mozione?
Oltre a proclamare Verona “città a favore della vita” (cosa che di per sé non dovrebbe infastidire nessuno), la giunta leghista si è limitata ad impegnarsi a finanziare alcune associazioni come il “progetto Gemma” e il “progetto Chiara” (che si occupano di raccogliere denaro tramite “adozioni a vicinanza” di donne che vorrebbero abortire per via delle difficoltà economiche) e a promuovere il “progetto Culla segreta” (che aiuta le donne in “dolce attesa” che non vogliono tenere il bambino a partorire in anonimato trovando una famiglia adottiva per il nascituro). Non c’è nessuna criminalizzazione dell’aborto, né alcuna limitazione o ostacolo ad abortire in aggiunta a quelli già previsti dalla santificata legge 194, invero anche questa dai più ignorata nei contenuti e nello spirito.
La 194: come nasce, cosa prevede
Spesso parliamo (e sentiamo parlare) della “194” come della legge che ha riconosciuto alle donne il “diritto all’aborto punto e basta”, nel senso della massima “il corpo è mio e me lo gestisco io”. Ma siamo proprio sicuri che sia così? In effetti, chiunque abbia la pazienza di fare una breve ricerca online, troverà diverse ricostruzioni dell’approvazione di questa legge, tutte concordi nel riconoscere che quello dell’epoca fu un compromesso tra differenti posizioni valoriali che inquadravano la salute dell’essere umano da prospettive diverse le une dalle altre. D’altronde, che l’aborto sia stato istituzionalizzato come extrema ratio, e non come modus operandi per “sopprimere” eventuali figli indesiderati, lo si evince già dal semplice testo della legge (reperibile qui).
Alla donna non è riconosciuto, come si può comprendere scorrendo la legge, il diritto di interrompere la gravidanza sempre e comunque, ma solo nei casi in cui «la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito» (legge 194/1978, art. 4).
Che poi sia difficile, se non impossibile, valutare se, effettivamente, la salute psichica di una donna sia messa a rischio dalla prosecuzione di una gravidanza, è altra questione che si pone in un secondo momento, e che qui tralascerò. Al momento basta rilevare che l’orientamento valoriale che emerge dalle parole della legge in questione è quello che vede l’aborto come extrema ratio in caso di gravi pericoli fisici o psichici per la madre, in caso di possibili malformazioni del feto e in caso di gravi difficoltà economiche; vale a dire che, nello spirito della legge, se io vivo in condizioni di agiatezza o “normalità” economica e rimango incinta perché si rompe il preservativo, e la gravidanza non mette in serio pericolo la mia salute fisica e mentale (magari voglio abortire semplicemente perché mi sento troppo “giovane”), allora, a rigor di legge, non dovrei avere il diritto di abortire. Questo è lo spirito della legge, questo il compromesso raggiunto nel 1978 quando è stata varata.
Non a caso chi ha scritto la legge ha voluto esordire ricordando che «Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio», che «L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite» e che «Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite» (art. 1). Vale a dire che, secondo la legge 194, l’aborto non può e non deve essere usato come “contraccettivo di ultima istanza” («non è mezzo per il controllo delle nascite»).
Non solo: la 194 sancisce anche che i consultori devono contribuire «a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza» (art. 2), e, «specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall’incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari», hanno il compito di aiutare la donna «a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto» (art. 5).
Una “mozione anti-aborto”?
Alla luce di quanto sopra riportato, si può davvero, in coscienza, affermare che quella della Lega di Verona sia una “mozione anti-aborto”, come hanno urlato i titoli di giornale? La risposta è: solo se consideriamo la 194 come una “legge anti-aborto”. La giunta leghista, infatti, non ha affatto snaturato la 194, e ha anzi dato nuova vita a quelle parti della legge che sempre più si tende ad ignorare. La giunta veronese si è infatti limitata a promuovere, come richiede la 194 stessa, il finanziamento e le attività di associazioni atte «a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza». Come possiamo, quindi, ritenere la 194 una conquista, una legge che tutela l’aborto, e allo stesso tempo bollare la mozione leghista (che non fa altro che enfatizzare lo spirito e la lettera della 194 stessa) come “mozione anti-aborto”?
Alcune considerazioni finali
Al di là della legittimità o meno della mozione leghista, al giorno d’oggi in Italia di aborto (come di tutti i temi “caldi” e spinosi) non si riesce più a parlare: le posizioni, nel dibattito mediatico, vengono spesso estremizzate e svilite, riducendo tutto a un aut-aut secco tra libertà di scelta della donna e tutela della vita del possibile nascituro. Da un lato, i più ferventi anti-abortisti conquistano il campo definendo l’aborto un omicidio tout court, spesso ignorando il problema di cosa significhi portare a termine una gravidanza fortemente indesiderata; dall’altro lato, abbiamo i filo-abortisti più oltranzisti, che tacciano di «bigottismo medievale» qualsiasi considerazione di natura etica, qualsiasi proposta di porre limiti all’aborto, qualsiasi tentativo di chiedersi se davvero tutte tutte le donne che vogliono abortire non potrebbero cambiare idea se la loro situazione economica fosse diversa, se si assicurasse loro sostegno e via dicendo. Nel mezzo, chi prova a porsi dei problemi senza nascondersi dietro un dito, venendo sballottolato di qua o di là a seconda di chi si trova davanti.
«Se non vuoi praticare aborti, puoi fare il dermatologo!», inveiscono in molti contro i tanti obiettori di coscienza che abitano i reparti di ginecologia italiani. Alcuni chiedono che, vista la scarsità di ginecologi non obiettori, vengano fatti bandi di assunzione ad hoc, dimenticando che uno dei principi cardine su cui si fonda la nostra democrazia è quello di non discriminare nessuno per via delle sue opinioni personali, né sul luogo di lavoro né altrove.
Oggi, nell’opinione pubblica dominante, quella “colta”, quella che conta, quella sostenuta dai mezzi di comunicazione e dalle élites culturali, vige l’idea che ognuno ha il diritto di scegliere per sé, che chi vuole abortire abortisce e chi non vuole non lo fa, punto e basta. «La libertà di ognuno finisce dove comincia quella di un altro», si sente ripetere come un mantra. Certo, ma tra queste libertà c’è anche quella che taluni attribuiscono al feto, e la libertà di scegliere in che tipo di mondo vivere, con quali valori, con quali limiti, promuovendo quale cultura: una cultura che normalizza l’aborto come modus operandi a-problematico oppure una che vi vede una tragica decisione da prendere solo come extrema ratio? La legge 194, per come è stata concepita e scritta, propendeva per il secondo tipo di cultura; il modo in cui è stata interpretata dalla magistratura e da molti intellettuali, l’ha strattonata verso il primo tipo. La società civile, però, è divisa, e strepitare contro «bigotti» e «assassini» non aiuta a trovare un nuovo compromesso per la convivenza pacifica.
Dopotutto, non serve annoverarsi fra i due estremismi per riconoscere la problematicità dell’aborto: persino il “cinico” Dr. House, che considerava il feto alla stregua di una cellula sacrificabile sempre e comunque, arriva a dubitare della sua posizione quando vede quella minuscola manina fuoriuscire dalla pancia della sua paziente in sala operatoria (stagione 3, puntata 17).
SPAZIO AI COMMENTI