Censura e social network: prima vennero a prendere i Trump…

A seguito della tragicommedia che si è svolta l’altro giorno a Washington (a nessuno è venuto in mente Joker?) Mark Zuckerberg, il proprietario di Facebook, ha sospeso l’account di Donald Trump fino a data da destinarsi. Non che in questi anni non siano già state prese decisioni del genere dai proprietari dei più importanti social network (le censure imperano da tempo e sono state all’ordine del giorno nella campagna per le presidenziali statunitensi), ma il gesto di Zuckerberg è talmente plateale che oggi si dovrebbe parlare solo di questo, e invece ci si accontenta di ridere del tizio mascherato o di sospirare un “menomale che se lo levamo dai cojoni” (Trump).

La “sospensione” è stata annunciata sul noto social network ieri pomeriggio, insieme ad una breve spiegazione. Al nocciolo, il signor Facebook ritiene che «i rischi di permettere al Presidente di continuare ad utilizzare il nostro servizio in questo periodo siano semplicemente troppo grandi» per via degli «eventi scioccanti delle ultime 24 ore». Secondo Zuckerberg la realtà dei fatti è chiara e semplice: «il presidente Donald Trump intende utilizzare il tempo che gli rimane in carica per minare la transizione pacifica e legittima del potere al suo successore eletto, Joe Biden», ovvero usare la piattaforma «per incitare insurrezioni violente contro un governo democraticamente eletto». Il proprietario di Facebook ci tiene anche a precisare che le dichiarazioni rilasciate online da Trump durante le proteste dei suoi sostenitori sono stato rimosse d’autorità da Facebook «perché ritenevamo che il loro effetto – e probabilmente il loro intento – sarebbe stato di provocare ulteriore violenza». Accuse, sentenze e pene pesanti, tutte in una botta, ma facciamo un passo indietro e andiamo con ordine.

 

Quanto il signor Facebook sia onesto e sincero in quello che dice e che fa non è dato saperlo, e in questa sede non interessa. Per lavorare bene si prende sempre l’ipotesi migliore: in questo caso che il signor Zuckerberg sia intelligente, responsabile e onesto quanto me, e che abbia agito prendendo la decisione che riteneva migliore per sé e per la collettività. In effetti, se mi metto nei suoi panni, è possibile che mi porrei anch’io il problema della censura e della messa al bando di chi non segue quelle che ritengo essere le regole di una convivenza pacifica. Zuckerberg ha tutte le ragioni di porsi un problema del genere: prima di tutto, a livello personale e anche legale, Facebook è una sua creazione e una sua proprietà, e pertanto lo usa a suo giudizio e piacere; in seconda battuta, a livello collettivo, Facebook conta su 2 miliardi e mezzo di iscritti (circa un terzo della popolazione mondiale), pertanto ciò che vi circola ha un potenziale di visibilità (e quindi di impatto sulla società) davvero notevole, e bisogna ammettere che avere il potere di decidere chi può usarlo e chi no è una responsabilità davvero grossa da sopportare. No, dico davvero: troppo grossa. Se fossi Zuckerberg, non la vorrei.

Allora io mi immagino questo Mark (che è per ipotesi intelligente, responsabile e onesto quanto me) che studia, legge, si informa, parla con la gente, e nutre il dubbio, con le informazioni che riesce a raccogliere, che Trump sia una sorta di Hitler del nuovo millennio. Poi vede quelli dell’altro giorno salire armati a Capitol Hill e pensa che magari sono le camicie nere 2.0. Ecco, posso anche capirlo che si senta in dovere di fare qualcosa. Perché se pensi che le cose stiano così e sei il proprietario di un social network che vanta 2 miliardi e mezzo di iscritti, il minimo che tu possa fare, se abbracci una qualche idea di “bene comune”, è chiederti se puoi fare qualcosa per incanalare il treno dell’umanità su binari migliori. Così, come proprietario di casa, allontani l’ospite sgradito.

Il problema è che Facebook è sì proprietà di Mark Zuckerberg, ma, come altri social (Twitter in testa), ha raggiunto un livello di diffusione e di pervasività tale che non può più essere equiparato a nessuna proprietà (mobile, immobile o terreno) mai posseduta prima d’ora da privati cittadini. Un social come Facebook equivale, nel virtuale, ad un intero continente del nostro pianeta fisico, ed è spaventoso pensare che un privato cittadino, senza nessun ruolo collettivamente e democraticamente riconosciuto, possa decidere chi sia ammesso a partecipare e cosa gli sia consentito dire.

Perché, pur assumendo tutta la buona fede di cui voglio assumere sia impregnato Zuckerberg, ci sono diverse obiezioni che si possono muovere alla sua posizione. La prima è che la sua interpretazione della situazione è frutto (come è ovvio che sia, ma è bene ricordarlo) dei suoi pregiudizi, delle sue informazioni e delle sue preferenze, e il processo alle intenzioni di Trump («intende utilizzare il tempo che gli rimane in carica per minare la transizione pacifica e legittima del potere») ne è la prova più visibile (per analogia, è come se io avessi assunto che Zuckerberg ha bandito Trump da Facebook perché non condivide le sue posizioni politiche, e non perché sinceramente preoccupato dalla situazione all’interno del Congresso americano). In secondo luogo la sua decisione di censurare le dichiarazioni del Presidente degli Stati Uniti (tale era, ed è ancora, Donald Trump), per quanto possa essere dettata dalle migliori intenzioni («avrebbero provocato ulteriore violenza»), appare quantomeno controversa: siamo sicuri che la censura riduca la violenza? Non viene a nessuno il dubbio che questa guerra che i social network hanno ingaggiato da diversi mesi contro Trump e contro i suoi sostenitori (e in generale contro chiunque si discosti un po’ troppo dal mainstream) sia, al contrario, un fattore che alimenta la rabbia e che accende la miccia della violenza in alcuni cittadini insoddisfatti che non sanno come farsi ascoltare, e che vengono costantemente insultati e ridicolizzati a reti unificate? Perché vediamo la connessione tra censura e conseguente violenza solo quando accade lontano da noi, e non quando ci succede in casa, nelle nostre democrazie sviluppate, avanzate, civili e tolleranti?

Cari amici che ringraziate Facebook per questa operazione, o che non ci vedete nulla di pericoloso e preoccupante e quindi rimanete in silenzio, ricordatevi sempre che il problema della storia è che quando ti sta per rifilare una fregatura sembra sempre qualcosa di positivo; anche perché, se ci si accorgesse della fregatura, probabilmente si riuscirebbe ad evitarla. Oggi Facebook è in mano a Zuckerberg, che ha certe idee e porta avanti una certa linea, magari a voi congeniale; domani ci sarà qualcun altro, che avrà altre idee e porterà avanti altre linee, magari non in armonia con le vostre. Facebook è a tutti gli effetti un territorio, anche se virtuale, e come tale è giusto e naturale che vi vigano delle regole. Il punto è che dato che ci vantiamo tutti (anche Zuckerberg stesso) di vivere in democrazia, allora tali regole dovrebbero essere elaborate ed applicate democraticamente, come accade o dovrebbe accadere in tutti i territori democratici. Facebook (così come Twitter) è un territorio troppo esteso e troppo presente nelle nostre vite, troppo frequentato da tutti, per lasciare che sia gestito come un club privato, quando è chiaro che somiglia più a una piazza pubblica. Dell’ammissione o meno ad un social network che è diventato parte integrante delle nostre società non può decidere un privato cittadino; se c’è qualcuno che può decidere una cosa del genere, dev’essere un’istituzione pubblica: i tribunali nazionali, i ministri degli interni, i Presidenti della Repubblica, possiamo metterci d’accordo, ma che sia un’istituzione inserita in un meccanismo democratico garante delle minoranze, e non un privato che ti caccia dal suo bar a seconda di come gli gira. Ammesso che qualcuno debba avere un potere del genere: la libertà d’espressione e d’esistenza (esistenza sulla rete, in questo caso) è un qualcosa di così delicato che forse non è il caso di giocarci con tanta leggerezza, senza approfondire bene le alternative.

 

Da "La vita è bella", di Roberto Benigni (1997)
Da “La vita è bella”, di Roberto Benigni (1997)

È scandaloso che non lo si urli tutti i giorni nelle piazze, fisiche e virtuali, che bazzichiamo. Ed è molto significativo che i giornali, che dovrebbero vedere in una censura così disinvolta un mostro a tre teste capace di divorarli in un sol boccone, non dicano nulla in merito, e anzi stringano l’occhio complici. È proprio vero, non impariamo mai: «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano»



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