Coronavirus: “free riders” e “polli”. Chi fa l’Italia e gli Italiani

I “free riders”

Sono quelli che l’altra sera, appena sui giornali si è diffusa la notizia che il Governo avrebbe messo in isolamento l’intera Lombardia per tentare di rallentare la diffusione del Coronavirus, si sono scaraventati nelle stazioni milanesi e nelle autostrade nel tentativo di sfuggire alle misure precauzionali finché erano in tempo, per raggiungere le loro famiglie al Sud. Poco importa se, insieme ai loro bagagli, hanno trasportato anche qualche manciata del virus che sta infestando il mondo: loro dicevano “tanto non ho tosse e raffreddore, quindi non sono malato”.

Sono quelli che, dopo aver deciso di abbandonare Codogno nel bel mezzo della quarantena per soggiornare in relax sulle montagne trentine, mentre in Lombardia esplodeva il problema dei contagi all’interno degli ospedali e i medici cominciavano a temere di dover scegliere chi salvare e chi lasciar morire, hanno pensato bene di presentarsi candidamente in pronto soccorso con tosse e raffreddore: tanto il virus non ce l’abbiamo mai noi, ce l’ha sempre qualcun altro, e poi “non posso mica aspettare che mi vengano a prendere con l’ambulanza”. O quelli che, mentre la vita dei due turisti cinesi allo Spallanzani era ancora appesa a un filo, tornavano da una conferenza a Singapore con febbre e tosse, ma facevano gli spavaldi e andavano a correre le maratone o a giocare partite di pallone, andavano al pronto soccorso e poi rifiutavano il ricovero, pensando di poter evitare di pagare il conto anche questa volta, solo perché erano giovani e atletici, senza patologie, col cuore sano e valori nella norma; come se questo significasse essere immuni, o quantomeno immortali.

Sono quelli che, pur essendo risultati positivi al tampone e avendo ricevuto disposizione di rimanere in casa, continuavano imperterriti a gironzolare perché si sentivano in perfetta forma, e se loro stavano bene col virus era chiaro che chiunque sarebbe stato altrettanto bene; e poi avevano da fare, loro, mica stavano a pettinar le bambole. O quelli che, a Milano, mentre il virus stava esplodendo a macchia d’olio in tutta la Lombardia, uscivano a fare aperitivi in locali affollati al grido di #MilanoNonSiFerma!, perché tutto sommato faceva figo sentirsi gli eroi del momento, senza macchia e senza paura, che non si lasciavano minimamente scalfire da quello che “è chiaramente un virus simil-influenzale, niente di preoccupante”, magari aggiungendo che comunque l’unica cosa che conta è “salvare l’economia”. Come se ci fosse economia senza salute, poi.

 

Un post del segretario del Partito Democratico, Nicola Zingaretti (poi risultato positivo al Coronavirus), sull'aperitivo a sostegno dell'economia milanese
Un post del segretario del Partito Democratico, Nicola Zingaretti (poi risultato positivo al Coronavirus), sull’aperitivo a sostegno dell’economia milanese

Sono quelli che, da Bruxelles, il giorno stesso in cui i contagiati italiani raggiungevano e superavano quota mille, prendevano un aereo che li portava a Bergamo e poi un pullman per andare a sciare, perché tanto “nessuno me lo vieta e nessuno blocca i voli, quindi perché mai dovrei rinunciare alla mia settimana bianca?”. O quelli che, a Torino, mentre in diversi Paesi del mondo venivano bloccati i voli da e per l’Italia o venivano disposte misure di quarantena per chi provenisse dal nostro Paese, si chiedevano “mi conviene partire per Londra oppure rischio di rimanere chiuso in casa per 14 giorni?”. O ancora quelli che, a Roma, quando i contagi erano più di 4.600, il 73% dei quali ricoverati in ospedali sovraccarichi e a corto di personale medico e infermieristico, uscivano a fare movida notturna dicendosi “cazzo, ho vent’anni, non posso chiudermi in casa e rinunciare alla mia vita sociale per un’influenza che uccide solo i vecchi”. E sia, caliamo il velo su quel Mattia 38enne, non proprio anziano, in rianimazione da tre settimane, o sui giovani che sono morti in Cina negli ultimi mesi: loro non contano, conta solo se raggiunge me, o i miei parenti, o i miei amici.

Sono quelli che davanti ai 6mila contagi e 200 morti in due settimane non facevano una piega perché, dicevano, “i numeri sono alti solo perché siamo un Paese di vecchi” (ipotesi, inoltre, non esattamente condivisa tra gli epidemiologi), senza curarsi del fatto che quei numeri riguardavano regioni tra le più giovani d’Italia e con la sanità più attrezzata ed efficiente del Paese. Perché chiedersi cosa potrebbe succedere se il contagio raggiungesse le regioni del Sud, più anziane e con sistemi sanitari meno efficienti, quando si può vivere tranquillamente ignorando il problema finché non sarà troppo tardi per evitarlo? O quelli che, quando il gioco ha cominciato a farsi duro, hanno svaligiato farmacie e supermercati alla ricerca di mascherine, guanti, amuchina e cibo a lunga conservazione, senza chiedersi a chi stessero togliendo quei prodotti, senza chiedersi cosa accadrebbe se al mondo tutti si comportassero come loro: ciò che conta è che “io mi sono messo al sicuro, gli altri si arrangino”.

Sono quelli che, a Vo’ Euganeo, mentre la velocità di contagio raggiungeva vette inaspettate e diverse persone in Italia cominciavano a preoccuparsi perché non gli era consentito di fare un tampone per verificare la natura dei propri malesseri, si lamentavano perché non volevano fare il secondo tampone di controllo, perché si sentivano cavie, perché avevano già fatto il loro dovere. E non si accorgevano che, nella sciagura di vivere nella zona rossa, avevano però il privilegio di potersi togliere ogni dubbio sul proprio stato di salute (e di potersi nel caso curare) e sull’eventualità di essere portatori di morte per i propri cari, o per le persone incontrate per strada.

Sono quelli che, in Università, mentre il virus cominciava a diffondersi in tutta Europa, si preoccupavano per la sospensione di lezioni ed esami, e chiedevano incontri col mondo della politica per non sentirsi tagliati fuori, e per ribadire che #NoiLaCrisiNonLaPaghiamo, che gli studenti non possono essere danneggiati dai capricci di un virus indisponente, che la crisi la deve pagare qualcun altro. Come se ci fosse qualcuno che meriti più di altri di sobbarcarsi i costi di un’epidemia, come se il fatto di essere studenti li renda più valevoli dei poveri comuni mortali che devono pensare ai figli, al lavoro e ai genitori anziani; come se il salto di un appello, con tutti gli effetti nefasti che può comportare, possa davvero essere paragonato al valore delle vite che si tutelano con la chiusura di scuole e università. Oggi si possono fare lezioni e lauree in streaming; ma se non fosse esistito internet cosa avrebbero fatto: avrebbero chiesto la riapertura degli Atenei?

Sono quelli che, a Venezia, il 3 febbraio, circa due settimane prima della scoperta del cosiddetto “paziente uno”, quando ancora si poteva forse fare qualcosa non tanto per evitare il contagio, ma per contenerne la portata, inveivano a gran voce contro i governatori leghisti che chiedevano la quarantena per tutti gli studenti di ritorno dalla Cina, e che per questo venivano tacciati di essere “razzisti” e chiaramente “catastrofisti” antiscientifici. Quelli che oggi non hanno il coraggio di ammettere pubblicamente di aver sbagliato valutazione, di aver sottovalutato i pericoli, di aver ignorato i disastri che avvenivano in Cina forse perché quest’ultima appariva troppo lontana per essere ritenuta degna di interesse.

Sono quelli che, giusto pochi giorni prima dell’esplosione del focolaio italiano, mentre il Dalai Lama annullava tutti i suoi impegni internazionali e il Mobile World Congress di Barcellona veniva cancellato, mentre in Cina il virus arrivava a mietere più di mille vittime superando il record della SARS e gli esperti stimavano che sarebbero stati infettati circa i due terzi della popolazione mondiale, mentre l’OMS parlava di “minaccia globale” e la gente in Cina si suicidava per evitare di contagiare la famiglia, esprimevano il loro giubilo sui social network degli “ostaggi” della Diamond Princess, la nave da crociera su cui si sono infettate 695 persone su circa 3mila, e su cui ci sono state 6 vittime: a quei poveri cristi bloccati sulla nave dicevano “Siete meglio di Netflix!”, come se quei passeggeri non fossero in una situazione di alto rischio per la loro vita, come se il fatto di essere visibili solo sui social network significasse essere virtuali, o invincibili.

 

I follower agli "ostaggi" della Diamond Princess: "Siete meglio di Netflix!"
I follower agli “ostaggi” della Diamond Princess: “Siete meglio di Netflix!”

 

I “polli”

Poi ci sono quelli che, con la pelle bianca o gialla o nera, in silenzio, anche se nessuno glielo chiedeva, si mettevano in autoisolamento dopo essere rientrati dalla Cina; anche se a farlo in Italia, con tutta quella noncuranza per i contagiati e i morti nel mondo, si sentivano un po’ degli alieni, o dei pesci fuor d’acqua. Quelli che rinunciavano ad aprire i negozi presumendosi malati, anche senza tosse, raffreddore, febbre o mal di gola: non temevano di venire contagiati, ma di contagiare altri.

Quelli che, anche se non si capiva bene questo Coronavirus cosa fosse, proprio perché non si capiva bene, hanno cominciato a lavarsi le mani meglio e più spesso, a disinfettare lo smartphone di tanto in tanto, ad evitare di uscire con l’influenza. Quelli che, anche se le lezioni universitarie non erano state sospese, hanno rinunciato a una lezione per non sovraffollare un’aula di norma già affollata; anche se nessuno gli ha assicurato di “restituirgli” quell’ora di apprendimento persa, aggratis, per tutelare se stessi e gli altri.

Sono quelli che, dal Veneto e dalla Lombardia, anche se non erano nei comuni della zona rossa, hanno disdetto le loro vacanze già minuziosamente organizzate per evitare di essere, malauguratamente, veicolo di infezione, o hanno chiesto a genitori e nonni di non andarli a trovare, per non fargli correre un rischio evitabile. Sono quelli che, a Napoli, anche se tutti gli organi istituzionali continuavano a ripetere che “è tutto sotto controllo”, hanno cominciato a evitare i luoghi affollati, hanno fatto la spesa per il nonno o i vicini di casa più anziani, hanno continuato la loro vita normale semplicemente limando qua e là quelle abitudini non necessarie e più a rischio di diffondere il contagio. Anche se nessuno gli aveva imposto di farlo. Anche se non era ancora morto nessuno sotto i settant’anni. Anche se il Presidente del Consiglio e il capo della Protezione Civile non avevano ancora chiesto alla collettività di cambiare i propri stili di vita.

 

Il messaggio che alcune ragazze di Torino hanno lasciato all'ingresso del loro palazzo
Il messaggio che alcune ragazze di Torino hanno lasciato all’ingresso del loro palazzo

Sono quelli rimasti sempre anonimi, spesso presi in giro perché “eccessivi”, “allarmisti” o “ignoranti”; alle volte stigmatizzati come “fascioleghisti” o “razzisti”, o nel migliore dei casi “paranoici”, magari perché in un eccesso di precauzione hanno preferito interrompere momentaneamente le loro abbuffate al ristorante cinese. Sono quelle persone che per giorni i “free riders” hanno deriso senza remore e che invece avrebbero dovuto ringraziare: per i piccoli sacrifici, per la cautela e per la pacatezza che, magari, ha salvato la vita a qualche parente o amico degli stessi “free riders”. Ma nessuno li ringrazierà, e nessuno chiederà loro scusa: faranno tutti finta di essere sempre stati i virtuosi, sempre all’altezza della situazione, sempre preoccupati per il prossimo, mai superficiali o egoisti. Come tanti Andrea Scanzi, che per giorni hanno riso di quelli che chiamavano “allarmisti” e oggi si lamentano dei “deficienti” che scorrazzano in giro per l’Italia. E non impareranno, non capiranno la virtù e l’utilità del senso civico, della capacità di sentirsi comunità; non apprezzeranno il gusto di aver fatto, spontaneamente, un piccolo sacrificio per metterlo a disposizione degli altri. Non capiranno mai fino in fondo quella frase che troppi hanno sulla bocca, di quel tale che un giorno, su un satellite poco lontano, aveva detto: “Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità”.



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