Sebbene prevalentemente concentrati sulla votazione italiana, opinionisti e commentatori hanno spacciato le elezioni del 26 maggio per una vittoria dell’europeismo («Il fronte europeista frena i sovranisti», titola il Corriere della Sera), ma il voto di due giorni fa ci racconta un’altra storia, in cui i subbugli europei emergono ben evidenti, ponendo serio l’interrogativo: siamo davanti a un’Europa unita? Sarà anche vero, come scrive Andrea Bonanni su La Repubblica, che «I tre gruppi della destra populista e anti-europea, tutti insieme, raggiungono a stento 170 deputati: meno del 25 per cento», ma è anche vero che, nonostante il fuoco mediatico aperto incessantemente e in tutta Europa nei loro confronti, i partiti euroscettici (spesso tacciati di “fascismo”) confermano il trend di crescita imboccato ormai da diversi anni (facendo il pieno in Francia, Regno Unito, Italia e Ungheria), mentre i partiti tradizionali del centro-destra e del centro-sinistra, che rappresentano l’establishment Europeo e l’Unione Europea per come la conosciamo oggi, vedono una significativa débacle, in favore in parte dei Verdi e in parte dei Liberali.
Il messaggio fin qui sembra chiaro e, soprattutto, in linea con le previsioni: l’elettorato europeo continua a volere un’Unione Europea diversa, e continua prevalentemente a esprimere una sempre maggiore preferenza per un qualche cambiamento. Segnale evidente del fatto che tra i cittadini dell’Unione Europea persistono profonde insoddisfazioni, soprattutto riguardo ai problemi dell’immigrazione e dei rapporti tra economia e politica. E non è una novità.
La novità di quest’anno, che dovrebbe dar da pensare ai più filo-europeisti, che invece sembrano non tenerne conto, è un’altra: i popoli europei sono nettamente spaccati, e mai come quest’anno si sono viste le differenze tra le preferenze politiche di Italiani e Tedeschi, Francesi e Spagnoli, Ungheresi e Danesi, mettendo in dubbio l’idea di un’Europa unita.
I sovranisti euroscettici
Da un lato abbiamo chi ha espresso un chiaro orientamento verso un ridimensionamento delle pretese “centraliste” dei vertici dell’Unione Europea: la Lega di Salvini ha stravinto in Italia, Marine Le Pen ha superato Macron in Francia, dove peraltro da mesi i gilet jaunes manifestano settimanalmente il loro dissenso (e, sebbene la partecipazione alle proteste sia gradualmente scemata, secondo i sondaggi mantengono comunque il sostegno di metà della popolazione francese).
Nel Regno Unito alle prese con i dilemmi del dopo-referendum, il Brexit Party di Farage (che vuole un’uscita ad ogni costo dall’UE, con o senza accordo) ha fatto il pieno di voti, facendo a pezzi i conservatori più cauti (ridotti al 3%) e i laburisti (passati dal 24% del 2014 al 14% del 26 maggio). In Polonia il partito euroscettico di destra Diritto e Giustizia ha guadagnato 14 punti percentuale rispetto al 2014, arrivando al 45% dei voti totali (quasi metà di un elettorato che, per gli standard della Polonia, è andato al voto “in massa”: 43% di affluenza, laddove il tasso di partecipazione più alto si era avuto nel 2009, del 24%). In Ungheria stessa storia, più in grande: il partito del temuto Orbán, il FIDESZ, mantiene le sue percentuali bulgare attestandosi al 52%, anche qui con un forte aumento della partecipazione al voto, passato dal 28% al 43% (il massimo storico si era registrato nel 2004, quando la partecipazione era stata del 38%).
I Verdi
Dall’altro ci sono i Paesi che hanno premiato i Verdi, che da anni chiedono un’Europa più attenta ai problemi ambientali e di giustizia sociale: in Finlandia la Lega Verde ha conquistato il secondo posto superando i socialisti, passando dal 9% del 2014 al 16%; idem in Germania, dove i Verdi hanno staccato i socialisti di 4 punti percentuale aggiudicandosi il secondo posto dietro il partito della Merkel, anch’esso in significativo calo.
I partiti di governo
Di mezzo, tante altre sfumature: in Belgio, il primo posto è della destra moderata e indipendentista fiamminga, seguita a ruota dalla destra euroscettica. In Portogallo, Irlanda, Danimarca, Bulgaria e in una Spagna ancora alle prese con il problema dell’indipendentismo catalano resistono i partiti di governo senza grossi scossoni. Così come in altri Paesi: in Croazia, dove però un seggio è andato anche alla destra anti-europeista; nella Repubblica Ceca, dove il partito del premier in carica, l’Alleanza dei Cittadini Insoddisfatti che in Europa si schierano con l’ALDE (il nome del partito la dice lunga), si conferma al primo posto e i Pirati arrivano al 14%; in Romania, dove il premier in carica viene battuto dall’opposizione, l’Unione Salvate la Romania, comunque filoeuropeista; In Svezia, dove vincono i socialdemocratici, ma i nazionalisti guadagnano punti rispetto alle passate elezioni europee.
Poi ci sono l’Austria e la Grecia: l’una messa “in scacco” dalla sfiducia di socialdemocratici ed estrema destra il giorno dopo che la maggioranza di governo ha vinto le Europee, l’altra presto alle urne per iniziativa di Tsipras, che nel voto europeo è stato superato da un centrodestra che per la prima volta dalla crisi del 2015 torna a vincere un’elezione.
Un’Europa unita?
Insomma, ammesso e non concesso che il fronte europeista abbia davvero rialzato la testa, quella che emerge è comunque un’Europa molto variegata al suo interno, che passa da un estremo all’altro dell’espressione di voto, e i cui interessi sono chiaramente difficili, se non impossibili, da conciliare. Siamo sicuri che questo sia davvero un buon risultato per una “Europa unita”? Siamo sicuri che una tornata elettorale in cui c’è stata una forte avanzata dei partiti euroscettici, un’esplosione dei Verdi e ribaltamenti elettorali tra le forze politiche tradizionali abbia sancito, come sostenuto da diversi commentatori in Italia, un trionfo della fiducia che i cittadini nutrono per questa Europa? Siamo sicuri che l’unico problema dell’Europa siano i cosiddetti “sovranisti”, e non anche la semplice differenza di vedute tra i cittadini dei vari Stati membri? Come sarà possibile la convivenza tra la Francia di Le Pen, l’Italia di Salvini, la Germania della Merkel e dei Verdi, la Spagna dei socialisti, il Belgio fiammingo?
Inspiegabilmente, però, opinionisti e commentatori vedono tutt’altro: «Le ambizioni di piegare gli equilibri continentali al verbo nazionalista sembrano ridimensionate, se non evaporate», sentenzia Massimo Franco dalle pagine del Corriere della Sera; «Il popolo europeo ha bocciato i sovranisti, chiedendo all’Unione di andare avanti», dichiara Enrico Letta in un’intervista sullo stesso giornale. Eppure, più che evaporare, i cosiddetti “sovranisti” sembrano crescere, e sembrano crescere le differenze politiche tra i diversi popoli sovrani europei.
«Dopo la Brexit, quando i deputati britannici usciranno dal Parlamento, i populisti anti-europeisti saranno ancora meno di oggi», rincara Andrea Bonanni su La Repubblica, in una gaffe di cui probabilmente non si rende nemmeno conto: i cosiddetti “europeisti” stanno finendo ormai anche le ultime munizioni, se devono gioire dell’uscita di uno Stato membro perché così si ridurrebbe il fronte degli euroscettici nel Parlamento Europeo. Se così stanno le cose, tanto vale sperare nella totale dissoluzione dell’Unione Europea: così saremmo sicuri al cento per cento che di euroscettici, nel Parlamento Europeo, non ne siederanno più. Da questo punto di vista, almeno, sarebbe davvero un’Europa unita.
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