Passano gli anni, ma il dibattito (pubblico quanto di nicchia) continua a stagnare nelle solite torbide acque, in una noiosa tiritera che sorprendentemente riesce a intrattenere la cittadinanza sempre con lo stesso ritornello agghindato di volta in volta di nuove vesti.
Ancora una volta il falso dilemma “votare o non votare” è stato spinto sul palco sotto ai riflettori, come se fosse lui l’unico papabile protagonista della nostra epoca (o almeno dell’attuale settimana), come se fosse quesito di capitale importanza la cui risposta cambierà inesorabilmente il corso della storia. E invece, cari illusi della domenica elettorale (pro o contro l’astensione poco cambia), non sarà un voto donato o gelosamente conservato a cambiare le sorti della nostra società. Come ho già ampiamente argomentato durante la precedente, altrettanto noiosa e stucchevole, campagna elettorale, qualunque forza politico-culturale che sia pronta ad agire un cambiamento reale nel mondo potrà anche passare per un’elezione (o, viceversa, per un astensionismo di massa), ma non sarà l’elezione (o l’astensionismo) il vero strumento del cambiamento.
Risulta ai miei occhi banale ricordarlo, ma quando l’ovvio è così ingombrante da risultare invisibile è doveroso correre il rischio di apparire scontati: a cambiare la storia non sono mai state le elezioni, né partecipate né disertate. A cambiare la storia sono sempre state le avanguardie culturali, spesso e volentieri (per tenersi cauti e non ripetere “sempre”) sostenute dalle armi e da chi non si tirava indietro a impugnarle e a subirne i colpi nemici. Si può forse immaginare una “rivoluzione” non sanguinaria, ma non si può immaginarla completamente pacifica, dal momento che “cambiamento” significa scardinamento degli equilibri in campo. Forse ad alcuni sfugge perché è un aspetto così ovvio che nessuno si prende mai la briga di soffermarsi sul punto, ma “scardinare gli equilibri” significa che chi ha tutto da guadagnare dall’attuale sistema culturale, politico, economico e sociale viene miracolosamente “convinto” ad accettare un sistema diverso, in cui ha meno (se non niente) da guadagnare. Qualcuno pensa forse che questo possa accadere in modo “indolore”? che chi gode di una posizione di privilegio nell’attuale assetto sociale sia pronto a cedere la sua seggiola al primo segnale di “forza” degli avversari (un’elezione vinta o disertata)? che non farà di tutto per difendere – con le unghie e con i denti – lo status che gli ha consentito di prosperare? che sia così “sprovveduto” da non tenersi pronto un “arsenale” da scatenare all’occorrenza?
Ciò che è desolante oggi come ieri non è l’affluenza alle urne o il risultato elettorale, ma il livello del dibattito, che anche tra i movimenti che si propongono come alternativa al sistema è così concentrato sul “fumo” della vicenda (votare o non votare, e chi votare) che finisce per adottare gli stessi atteggiamenti spocchiosi, le stesse pratiche censorie, la stessa boriosa superficialità, in breve lo stesso paradigma culturale difeso a spada tratta dal sistema. Un paradigma invero intimamente “fascista”, perché non contempla la possibilità di essere dalla parte del torto. E qui, in effetti, sta propriamente l’essenza del fascismo, nel senso strutturale (e non meramente storico) del termine. Perché nel momento in cui non si ammette la possibilità di essere in errore, inevitabilmente ci si erge gerarchicamente al di sopra di qualsiasi posizione “altra”, che smette di essere vista come una alter-nativa alla propria visione del mondo per divenire semplicemente qualcosa di inferiore, non desiderabile e, in extrema ratio, eliminabile (o quantomeno sacrificabile).
Nulla che valga la pensa di essere collettivamente difeso può nascere da chi non sia intimamente permeato dal dubbio di essere dalla parte del torto: perché questo dubbio è l’unica cosa che lo fermerà, in partenza e in ogni circostanza, da qualsiasi tentativo di prevaricare sull’altro fisicamente, politicamente o culturalmente. Non solo: lo renderà incline all’ascolto della controparte, che in quel caso sarà considerata passibile di essere nel giusto, e capace di cercare con essa compromessi costruttivi e nuove soluzioni che tengano conto di più di una visione del mondo, garantendo alla società quella ricchezza culturale che equivale alla tanto decantata “biodiversità”, che in politica prende il nome di “pluralismo” (reale, di tutte le parti, e non solo di quelle che “ci piacciono”). In un sistema che ha assunto la capacità di essere così sottilmente e viscidamente “fascista” da riuscire ad esserlo persino nei modi in cui si spaccia per “democratico”, questa è l’unica forma “certa” di antifascismo, che non può essere simulata o sbandierata a sole parole come si tende non di rado a fare.
Varrebbe forse la pena andare a votare se chi indossa gli abiti dell’alternativa fosse davvero portatore di un’aria fresca, pulita, che soffi verso la costruzione di nuovi rapporti di fiducia tra le persone e quindi di un nuovo senso di comunità, che si fondi sul rispetto e l’ascolto di un “alter” che venga percepito come potenziale collaboratore, e non sull’attacco e la censura costante di chi viene comodamente inquadrato come “avversario” quando non come “nemico”, anche tra le fila del comune (e fin troppo innocuo!) “popolo”. In un caso del genere, il voto non sarebbe comunque la soluzione, ma rappresenterebbe almeno un’occasione come un’altra di diffondere una cultura nuova, alternativa a quella che ci ha traghettati fin qui. Ma oggi un movimento di tale fatta, che sia realmente “anti-sistema”, agli atti non è pervenuto. Coloro che si spacciano per tali risultano, negli atteggiamenti e nelle pratiche (e talvolta persino nelle idee), più propriamente dei “contro” sistemici: sono “contro”, ma sono interni e perfettamente integrati al sistema. La strada per chi vuole cambiare è ancora lunga, e la meta è così distante da non essere ancora comparsa all’orizzonte. Se alcuni hanno da inveire contro chi, ai loro occhi, sa ben parlare ma non è capace di agire, io sono qui in aperto contrasto sul punto: se il cambiamento è ancora così distante dai giorni nostri è proprio perché nessuno si permette il lusso e si assume la responsabilità di fermarsi a pensare e a porre le basi per un vero dibattito, unico ingrediente utile a una fertilità culturale che latita e di cui tanto avremmo bisogno per ritrovare una direzione da percorrere insieme, anziché continuare a girare in tondo come se fosse una gara a chi corre più veloce sul posto.
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