Fai una scelta (relativa alle inserzioni)

Ci sono dei momenti, nella vita, in cui, volenti o nolenti, bisogna compiere delle scelte. E per quanto banali le scelte possano essere, a un esame più attento rappresentano sempre una perdita: sempre, per quanto banale o piccola sia una scelta, nel momento in cui la compiamo dobbiamo dire addio alle alternative che fino a un momento prima avevamo davanti. Le scelte, quindi, sono sempre sofferte: magari lo sono poco, perché diamo poco valore a ciò cui rinunciamo; ma dove c’è perdita c’è sofferenza, e se di fronte a una scelta non proviamo neanche un pizzico di dolore è solo perché non siamo consapevoli di ciò cui stiamo rinunciando.

A onor del vero sono grata al signor Zuckerberg per avermi messa di fronte a questa realtà forse banale ma che a forza di esserlo non mi si era mia palesata con tanto candore e con tale intensità di fronte agli occhi. Ciò che mi ha fatto riflettere non è tanto la sua recente politica sulle inserzioni pubblicitarie (la privacy garantita solo a seguito di un pagamento): tutto sommato non è una novità, dal momento che Facebook non sta facendo altro che accodarsi alle strade già intraprese da numerosi organi di informazione, che hanno già da tempo optato per la formula “o paghi o rinunci alla privacy” che oggi tanto va di moda. Ciò di cui devo dare merito a Zuckerberg è la scelta delle parole con cui ha adottato la sua nuova politica: «Fai una scelta relativa alle inserzioni», mi ha scritto. E da lì non si è schiodato: non c’è verso di accedere a Facebook evitando tale scelta, se non per pochi secondi, di certo non sufficienti a pubblicare un post di senso compiuto (tenterò di condividere questo articolo su Facebook approfittando di quei brevi istanti, ma è un’impresa in cui non sono sicura di riuscire). Ecco, il merito di Zuckerberg è di non aver girato intorno alla questione, ma di aver usato le parole appropriate: «Fai una scelta». Tre semplici parole che hanno il potere di metterti spalle al muro, almeno di fronte a te stesso. Fai una scelta: o di qua, o di là, tertium non datur (la “terza via”, come tutti i “tertium”, va cercata e costruita, se proprio lo si vuole – lo si vuole? – e non è dunque “data” per grazia divina come Gesù alla Madonna).

 

La schermata comparsa sulla app di Facebook il 10 novembre 2023.Titolo: "Fai una scelta relativa alle inserzioni" Testo: "Nell'ambito dei cambiamenti legislativi nella tua area geografica, ora puoi scegliere se continuare a usare i Prodotti di Meta senza costi aggiuntivi consentendoci di usare le tue informazoni per le inserzioni. In alternativa, puoi abbonarti per usarli senza inserzioni." Conclude il tasto "Inizia".
La schermata comparsa sulla app di Facebook il 10 novembre 2023

 

Così, come tutti gli utenti di Facebook che hanno aperto il sito o l’applicazione in questi giorni, mi sono trovata davanti alla schermata che recitava: «Nell’ambito dei cambiamenti legislativi nella tua area geografica, ora puoi scegliere se continuare a usare i Prodotti di Meta senza costi aggiuntivi consentendoci di usare le tue informazioni per le inserzioni. In alternativa, puoi abbonarti per usarli senza inserzioni». Per procedere, devi cliccare sul tasto «Inizia». Tornare “indietro”, come molti hanno notato nei giorni passati, non si può più (adesso sapete perché).

Ora mettiamo in chiaro una cosa: io non so davvero cosa comporterebbe la rinuncia a quel mio pezzo di privacy (posto che escludo, ovviamente, di pagare per una tecnologia che al fondo considero deleteria, e senz’altro più nociva che benefica, in un bilancio ben più negativo di quello legato alle sigarette o all’alcol o a tante altre droghe di uso quotidiano). Non lo so non solo perché non so, da un punto di vista tecnico, a che tipo di informazione Zuckerberg vorrebbe avere accesso, e per quanto tempo vorrebbe conservarla e in che forma, ma non mi sentirei neanche così fantasiosa da saper immaginare tutti i possibili usi che potrebbe, ora e in futuro, farne o lasciarne fare. Però una cosa la so: mi chiede di fare una scelta. Mi chiede un’autorizzazione esplicita che non mi aveva mai chiesto prima. E così facendo mi dà due possibili informazioni: o mi sta chiedendo dei dati in più rispetto a quelli che si sentiva libero di prendere fino all’altroieri senza offrirmi l’alternativa a pagamento, oppure mi sta chiedendo di assumermi la responsabilità della cessione di dati che fino all’altroieri si prendeva senza un’autorizzazione esplicita. In entrambi i casi, pretende che io mi assuma la responsabilità di una scelta in prima persona.

Onestamente: potrei ben accettare. Probabilmente la mia vita non cambierebbe di una virgola, né ora né in futuro, e continuare a usare Facebook cedendo i miei dati per le inserzioni non mi nuocerebbe in alcun modo, o almeno non più di quanto mi abbia nuociuto l’uso dei social network durante i 15 anni passati (passati, invero, piuttosto rapidamente – almeno collettivamente parlando – anche per via della “frenesia social”). Dirò di più: probabilmente se Facebook si fosse limitato a mettere un annuncio per la versione a pagamento, senza usare quel (rivelatore!) «Fai una scelta», avrei accettato implicitamente ogni cessione di informazioni, vecchie e nuove, senza neanche pormi il problema.

Però, appunto, Facebook mi pone di fronte a una scelta e mi chiede di assumermene la responsabilità. E, così facendo, mi dà anche la possibilità (implicita) di dire di no, di tirarmi indietro. Questo mi ha imposto l’obbligo di rifletterci su, di dargli importanza: mi obbliga a chiedermi chi sono io, chi voglio essere, quali scelte voglio compiere, e per quali motivi. E la prima risposta, quella al “chi sono”, è la più potente: perché io sono quella che ha rinunciato alle fonti di informazione di tutti i quotidiani che hanno scelto di ricattare i lettori sulla privacy (“o paghi o accetti tutti i cookie”), ma soprattutto sono quella che ha rinunciato a laurearsi, a lavorare, ad andare in biblioteca o in libreria e a fare tutte quelle piccole e grandi cose “normali” di una vita “normale” che per mesi e mesi sono state possibili solo per chi si piegava a mostrare un lasciapassare contenente le proprie informazioni sanitarie (e in parte ideologiche, dal momento che il tema era altamente politicizzato). Insomma, non si può dire che io sia una che non sa fare delle rinunce, e che non si assume le conseguenze delle proprie idee e delle proprie posizioni politiche. Ho rinunciato al lavoro, allo studio, ai libri, non solo in nome della libertà di cui ogni cittadino dovrebbe godere, e in nome della parità tra i cittadini, che non vanno discriminati per le loro scelte e orientamenti personali (siano religiosi, sessuali, politici o vaccinali non deve interessare a nessuno finché non si nuoce attivamente e palesemente al prossimo), ma anche perché ciascuno potesse godere di una giusta privacy sulle proprie informazioni sanitarie, che mai e poi mai dovrebbe essere obbligatorio esporre per condurre la vita di tutti i giorni, quella stessa vita senza la quale non esiste comunità e senso di identità collettivo. È forse anche per via di questa esclusione dalla comunità (cui la mia stessa comunità di appartenenza mi ha esposta), un’esclusione così cocente che non è possibile tornare indietro come se non fosse mai avvenuta, perché è rimasta impressa a fuoco nella mia memoria come resta impresso un marchio sulla pelle – dicevo, è forse anche per via di questa esclusione ancora vissuta nel profondo che posso essere io oggi, fieramente, a tirarmi fuori dalla “community” di Facebook: se posso vivere senza comunità italiana, posso vivere certamente senza “community” di Facebook, tanto più che Facebook è stato uno dei luoghi di maggiore discriminazione e propaganda d’odio nei confronti del non vaccinato o del “semplicemente-contrario-al-green-pass”.

Ma Facebook è stato anche, paradossalmente, il luogo in cui sono entrata in contatto con frange del mondo del dissenso, e in cui ho conosciuto persone a cui, pur non avendole mai incontrate dal vivo, mi sono legata, anche banalmente per aver condiviso certe importanti e per nulla marginali esperienze di vita “da dissidente”. Smettere di leggerle da un giorno all’altro è una perdita che mi sarei volentieri risparmiata, e che forse, se avessi dovuto affrontarla appena pochi anni fa, prima della pandemia, mi avrebbe lacerato. Oggi, dopo l’esperienza passata, le lacerazioni non fanno più così paura, e anzi sembrano quasi una nuova grande avventura pronta ad essere divorata. Perché, come dicevo in partenza, una scelta comporta sempre una perdita, ma non si esaurisce nella perdita.

Sia chiaro: il problema della recente politica di Facebook in campo di inserzioni pubblicitarie non è l’offerta di un servizio a pagamento, su cui è lecito voler trarre un guadagno quando si tratti di un servizio privato e non fondamentale o strategico (e qui semmai bisognerebbe chiedersi se sia giusto che una piazza virtuale sia di proprietà privata, ma è altro discorso). Ciò che Zuckerberg da ieri offre a pagamento, così come molti giornali e agenzie di stampa da diverso tempo, non è il servizio stesso, che è invece ben lieto di continuare a offrire gratuitamente, ma la tutela delle proprie informazioni personali e la possibilità di sfuggire a una pubblicità mirata che non si limita più a profilarti e segmentarti, ma che si appresta a confezionarti il messaggio direttamente su misura. Il risultato è che il pagante non ha neanche diritto a lamentarsi del servizio, perché ciò che sta pagando, ripeto, non è il servizio ma la tutela della propria privacy. Non vedere o non comprendere la differenza significa perdersi un pezzo importante di realtà. Che questo mondo perseveri nella vendita di ogni cosa, comprese informazioni personali a scopo di pubblicità mirate al singolo individuo, è specchio dei tempi. Ma è specchio (e motore) dei tempi anche l’utente che lo accetta. E io vorrei invece, come specchio, riflettere qualcos’altro, o piuttosto non riflettere più nulla. La mia è una scelta di principio: inutile, perdente, fallimentare, minoritaria, come quasi tutte le scelte di principio. Ma è l’unica che credo valga la pena di compiere assumendomene la responsabilità: le altre due sono per me, nel contesto dato, irricevibili.

 

Informazioni di contatto:

Chi, tra i miei amici di Facebook che non posso più leggere, abbia piacere a restare in contatto con me, trova la mail qui sul sito (ricevo già abbastanza spam senza che io la trascriva nell’articolo: se navigate fino in fondo alla pagina la troverete, e in privato potrò darvi la mia mail personale). Se volete potete anche iscrivervi alla newsletter (trovate il modulo in findo all’articolo), per ricevere una mail quando pubblico un nuovo articolo (a me non cambia niente avere un follower in più, anche perché scrivo poco e penso che scriverò ancor meno in futuro, perché c’è poco da scrivere in un mondo che vive solo dei pettegolezzi di giornata). Un’altra opzione per restare in contatto in un luogo simile a Facebook e a cui io sono attualmente iscritta è Kairete, un social fondato da una delle persone che in questi anni di “dissidenza” ho incontrato sul web. Per quanto io ammiri lo slancio di vita di Franco, che è abbastanza “visionario” e caparbio da aver messo in volo un social network nuovo di zecca, non riesco al momento a usare il suo spazio come ho usato Facebook fino a ieri, semplicemente perché il pubblico di Kairete è troppo selezionato: dei miei interlocutori di riferimento (alcuni dei quali parzialmente immaginari) solo pochi sono iscritti o si iscriverebbero a un social del genere. E non mi sento neanche di chiedere loro di iscriversi, perché in fondo penso che i social siano uno dei grandi mali della nostra era (che poi una parte di me sia così sciocca da voler continuare a usarli è altro discorso). Dunque, pur essendo iscritta come Lo Zampardo, al momento non sono attiva su Kairete. Tuttavia, se Kairete dovesse diventare ai miei occhi una valida alternativa a Facebook perché ci si iscrivono i miei variopinti interlocutori di riferimento (reali e immaginari) allora credo che comincerei ad usarlo come negli anni passati ho usato il social di Zuckerberg. Per chi cerca una “terza via”, Kairete può essere un buon inizio. Buona fortuna ai rimasti.

 



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