Giuseppe Conte: l’uomo di Mattarella?

«Vi confesso che la prospettiva di avviare una nuova esperienza di governo, con una maggioranza diversa, mi ha sollevato più di un dubbio. Ho superato queste perplessità nella consapevolezza di avere cercato di operare sempre nell’interesse di tutti i cittadini. Nessuno escluso». Così Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio dal 1° giugno dello scorso anno, ha “giustificato” quello che il leader della Lega Matteo Salvini ha chiamato “ribaltone”: un passaggio dal governo M5S-Lega al governo M5S-PD che Conte ha intrapreso, senza colpo ferire e senza soluzione di continuità, nel giro di meno di un mese, riportando ai vertici delle istituzioni politiche italiane quel partito che gli elettori, dalle “nefaste” elezioni del 2013, hanno bocciato alle urne, in un calo costante di voti (con l’eccezione delle Europee del 2014) che sono passati dai 12 milioni del 2008 ai 6 milioni e mezzo del 2018 e ai 6 milioni netti delle Europee di maggio, segnando il risultato peggiore della storia della sinistra italiana.

È cominciata in sordina la carriera politica di Giuseppe Conte: all’inizio era solo “uno vicino alle idee dei 5 Stelle”, un possibile ministro del governo pentastellato nel caso in cui il MoVimento di Grillo fosse riuscito a vincere le elezioni. Poi è diventato il “premier mediatore” tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini, a capo dell’ormai defunto governo giallo-verde. Un «burattino mosso da Salvini e Di Maio», come lo appellavano in Europa (ma anche in Italia) solo fino a poche settimane fa; «la più grande fake news vivente», un premier che «non decide, non conta, non governa», un premier per cui «il G7 è dopolavoro», attaccavano dalle più famose fronde del Partito Democratico; il «vice dei suoi vice», infierivano analisti e commentatori su giornali e televisioni, che rincaravano: uno che ha sempre e solo difeso «gli interessi milionari di grandi aziende… Altro che avvocato del popolo!». Accuse pesanti, ora mezze o interamente rimangiate, con troppa nonchalance trasformate in pacche sulle spalle e acclamazioni, elevando a rango di grande statista quello che oggi è riuscito nella non facile impresa di essere, nello stesso tempo, tanto ex- quanto neo-presidente del nostro governo.

 

Quando Giuseppe Conte era un burattino (Vauro)
Quando Giuseppe Conte era un burattino (Vauro)

«Sarò l’avvocato del popolo italiano», aveva detto Conte quando aveva ricevuto l’incarico di formare un governo l’anno scorso. Sarebbe stato il «governo del cambiamento», diceva durante il discorso di insediamento al Senato, perché, come ribadiva nella conferenza stampa del 3 giugno, quella del famoso “ultimatum” a Di Maio e Salvini cui non sono seguite né le risposte auspicate da Conte né le azioni da egli stesso minacciate, era necessario «invertire gli indirizzi politici perseguiti dalle forze che avevano governato sino al giorno prima e che non erano state capaci di interpretare e intercettare le istanze, i bisogni e anche le paure dei cittadini». E adesso con quelle “forze incapaci” che negli ultimi 14 mesi hanno mosso le più spietate critiche al governo e all’operato di chi lo presiedeva, con quel Partito Democratico che è lapalissiano emblema dell’establishment italiano e dello status quo che si contrappone al cambiamento, Giuseppe Conte si appresta a formare una squadra per il nuovo «governo della novità».

«Sta arrivando il Monti-bis!», ripete da giorni Salvini sui social network, evocando quel pesante colpo di mano con cui nel 2011 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha “fatto fuori”, con l’aiuto dei mercati e dello spread, un Silvio Berlusconi da poco uscito vincitore dalle urne. Chi è davvero Giuseppe Conte? È forse “l’uomo di Mattarella”, un Monti sotto mentite spoglie? In effetti, a guardare come lo spread se ne sia stato a cuccia per tutta la crisi di governo, ad ascoltare i compiacimenti in giro per i governi europei, a leggere le lisciatine di alcuni commentatori e le uscite del commissario europeo al Bilancio Günther Oettinger, che esorta l’Unione Europea a «facilitare il nuovo esecutivo italiano» perché «così la politica di Salvini non avrà più posto nel nuovo governo», le accuse di Salvini che ventilano un premier e un governo «voluti da Bruxelles» non paiono poi tanto astruse. Certo, se apriamo il baule delle dietrologie tutto diventa quantomeno plausibile: addirittura che Conte possa essere, più che un “traditore” dell’ultimo minuto, una “talpa” della prima ora, “infiltrata” nel Movimento 5 Stelle come un Giuda che con il suo bacio segna la condanna di Cristo. Dopotutto, con l’accordo con il “Partito di Bibbiano”, il M5S rischia davvero di firmare la sua fine.

Il punto è che Conte, a dispetto di come lo hanno dipinto i media in tutti questi mesi, è uno che piace, e che alla lunga e sui grandi numeri piace probabilmente più dei leader spregiudicati come i due Mattei o delle eminenze sbiadite alla Monti o alla Gentiloni. Con un pizzico di sincerità, non è difficile convenire sul fatto che, rispetto ai premier che si sono succeduti in Italia negli ultimi 15 anni, Conte sia una boccata d’ossigeno che ridona serietà, credibilità e sobrietà alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, allo stesso tempo riavvicinando quest’ultima al “sentire” di molti cittadini italiani. Sarà il ciuffo pettinato di lato, sarà la voce, saranno le espressioni e i modi, sarà la cura nel parlare e nel vestire, sarà il suo vocabolario semplice e chiaro, non “politichese” o “aulico”, ma nemmeno imbrigliato in quegli slogan e “nuovismi” di partito che tanto vanno di moda oggi, ma che svaniscono come fiammelle quando si soffia su un cerino. A dire il vero, a dispetto delle passate narrazioni dei media, piace non solo ai cittadini, ma anche ai governi europei; piace sicuramente a Mattarella, che, per ammissione dello stesso Conte, gli ha dispensato consigli per tutta la durata del governo giallo-verde; piace probabilmente, e nonostante tutto, persino al PD, che ha tutte le ragioni per invidiargli quell’aplomb e quella sorta di magnetismo che riesce a ostentare, alla faccia dei leader del centro-sinistra, che proprio non riescono a racchiudere in sé entrambe le caratteristiche; piace, ormai, persino alla stampa, che non consente più che si parli male del nostro illustre Presidente.

 

Conte e Mattarella durante le consultazioni
Conte e Mattarella durante le consultazioni

«Farò in modo che questa crisi sia la più trasparente della storia della vita repubblicana», ha detto Conte in conferenza stampa ai giornalisti, alla fine di quell’8 agosto in cui Salvini, dal palco sulla spiaggia di Pescara, ha annunciato l’intenzione di «mettere in gioco» le poltrone della Lega per ridare la parola agli Italiani. «Parlamentarizzazione della crisi», viene chiamata in gergo. E così, nel suo duro discorso del 20 agosto in Senato, Conte ha annunciato chiaramente la sua intenzione di dimettersi subito dopo la fine del dibattito che si sarebbe tenuto in Aula. Una «parlamentarizzazione» a metà, se vogliamo essere del tutto sinceri, perché così facendo Conte ha privato di senso la mozione di sfiducia depositata dalla Lega il 9 agosto (e per questo motivo ritirata durante il dibattito in Senato), e ha sancito unilateralmente la fine di quell’esperienza di governo. Avrebbe potuto, invece, riservarsi di dare le dimissioni solo a seguito dell’eventuale sfiducia parlamentare, come ha voluto Romano Prodi nel 1998 e nel 2008. In questo modo non solo avrebbe “parlamentarizzato” la crisi fino in fondo, completando quel passaggio istituzionale, come da suo annuncio, «nel modo più lineare e conseguente» possibile, ma avrebbe anche costretto la Lega di Salvini a quelle «trasparenti assunzioni di responsabilità» che aveva invocato egli stesso in conferenza stampa, lasciando ai leghisti l’onere di decidere del futuro della legislatura. Forse, così facendo, le cose sarebbero potute andare in maniera diversa.

Così non è andata, e quella del governo pentaleghista, lungi dall’essere la crisi «più trasparente della storia della vita repubblicana», è risultata torbida e a tratti incomprensibile, piena di rancori e veleni accennati o malcelati, un groviglio di recriminazioni e mezzi passi indietro cui il Presidente Giuseppe Conte ha chiaramente dato il suo (pesante) contributo, lasciando con l’amaro in bocca molti cittadini che, alla fin fine, si sono sentiti “traditi” non solo dal gesto sconsiderato di Salvini, ma anche da un Movimento Cinque Stelle e un Presidente del Consiglio che non hanno mosso un dito per evitare che tutto crollasse, e che anzi hanno messo ulteriore carne sul fuoco per consumare in fretta la crisi di quel governo «anti-sistema» e «populista» che poco più di un anno fa tutti e tre rivendicavano.

Conte, nel suo discorso al Senato, lungi dal chiedere spiegazioni circa la causa della crisi di governo, ha portato la sua tesi in merito e ha accusato il suo “vice” di «scarsa sensibilità istituzionale e grave carenza di cultura costituzionale», nonché di «opportunismo politico»; gli ha rinfacciato di aver «invaso le competenze degli altri ministri» e di aver «criticato pubblicamente l’operato di singoli ministri, incrinando la compattezza della squadra di governo»; infine, per non farsi mancare nulla, lo ha rimproverato per aver chiesto “pieni poteri” (e qui bisognerebbe tenere una lezione di comprensione del linguaggio) e per aver accostato «agli slogan politici i simboli religiosi». Quasi tutte osservazioni inappuntabili, che ben dipingono il leader della Lega. Ma da un Presidente del Consiglio che si dice animato da «tanta passione» che gli «sgorga naturale» e che rivendica con fierezza l’azione di governo e gli obiettivi perseguiti e da perseguire, ci si aspetterebbe che un discorso tanto duro venga affrontato prima che la situazione degeneri, quando ancora si può fare qualcosa per rimediare, e non dopo, quando ormai diventa solo l’occasione per svuotare la scarpa dei tanti sassolini che vi si erano accumulati. Se poi, tra questi sassolini, non si ha nemmeno il coraggio di infilarci un accenno di sana autocritica e non si riconosce apertamente che le difficoltà nella gestione del governo giallo-verde sono da imputare ai Cinque Stelle almeno quanto alla Lega (voto alla Von der Leyen e “no” simbolico alla TAV erano proprio necessari?), i dubbi sul ruolo e sull’operato di Conte sorgono spontanei. Dopotutto, forse, da parte di chi si definisce «avvocato del popolo» ci si sarebbe potuti aspettare una richiesta delle urne, anziché la formazione di un governo insieme a quelle “forze politiche incapaci” di cui parlava Conte un anno fa.

Nel frattempo, il nuovo governo “giallo-rosso” (o, come ha osservato correttamente qualche commentatore, “giallo-rosa”) nasce all’insegna della «novità» e del «nuovo umanesimo». A giochi ancora in corso si becca anche l’endorsement di Donald Trump, che a onor del vero potrebbe anche semplicemente non aver compreso che Conte passerà alla storia per essere stato, nel giro di un mese, Presidente di due Consigli dei Ministri che, almeno nell’immaginario collettivo, rappresentano due visioni politiche opposte e inconciliabili. In questo modo, il M5S, oltre ad “appiattirsi” e a lasciarsi tragicamente “monopolizzare” dalla figura di Conte, rischia di sparire definitivamente dalla scena politica italiana, mentre quella che è attualmente la prima forza politica del Paese viene esclusa da ogni angolo del potere, sebbene a seguito di un suo clamoroso “autogol”. Vuoi perché Salvini, come la direbbe Vittorio Feltri, si è lasciato prendere dall’”ora del coglione”, vuoi perché i Cinque Stelle cercano legittimazione negli ambienti che contano, quello che doveva essere il “governo del cambiamento” si è suicidato sul nascere, rinunciando non solo a un programma di governo ancora ben nutrito, ma anche a una serie di nomine e all’elezione del Presidente della Repubblica, che, nel lungo periodo, poteva forse davvero fare la differenza tra quella che viene chiamata “vecchia politica” e quel cambiamento tanto anelato da una parte della cittadinanza. Sullo sfondo, Bruxelles allunga la sua mano salvifica verso l’Italia, e le navi delle ONG non infrangono più nulla, nemmeno il silenzio, arrivando addirittura a chiedere un porto alla Germania, che fino a ieri si negava fosse possibile raggiungere (ma le ONG no, non fanno politica).

In tutto questo, la figura di Giuseppe Conte sembra davvero giocare un ruolo-chiave, e non da pochi giorni. Sarà quel “Dio” in buona fede che ha incontrato Beppe Grillo e cui si sono aggrappati i Cinque Stelle, determinato a “cambiare il sistema” per piccoli passi? O si tratta del “Satana” tentatore di cui ha parlato un vecchio ideologo del MoVimento, che sta vendendo i Cinque Stelle (e l’Italia con loro) al peggior offerente? Difficile dare una risposta sicura, ma lo vedremo presto. E chissà, magari un giorno, se il destino gli sorride, vedremo anche un Giuseppe Conte Presidente della Repubblica.



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