Il Dio delle Piccole Cose

Ho scoperto questo romanzo grazie all’omonima canzone di Niccolò Fabi, Daniele Silvestri e Max Gazzè. Spinta dalle parole del brano (scritte in realtà da Gaetano Capitano), mi immaginavo questo Dio come un folletto dispettoso, che ruba piccoli momenti alle nostre esistenze per infilarli nelle vite degli altri, a creare scompiglio e farsi sentire sconosciuti a se stessi. Un piccolo Dio del dispetto che ti aspetta lì, alla «fine del cammino», con un sacco di iuta in mano e un ghigno sbilenco sul volto, a chiederti se ne è valsa la pena: soddisfatti o rimborsati, dove il rimborso è una nuova esistenza con nuovi frammenti smarriti che riempiranno il suo sacco («l’inferno e il paradiso»).

 

 

In realtà probabilmente le due cose (il brano e il libro) non c’entrano nulla l’una con l’altra, perché il romanzo di Arundhati Roy parla di tutt’altro. O anzi, forse si tratta sempre di quel Dio che per dispetto sbaraglia le carte e le rende irriconoscibili, sconosciute a se stesse: Piccole Cose spostate di posto quel tanto che basta per cambiare i connotati dell’opera.

Ambientato nel suo Paese, l’India di Ayemenem, un piccolo villaggio nello Stato costiero del Kerala, narra di due gemelli che non si somigliano troppo, un maschio e una femmina, e di un’infanzia che finisce bruscamente separandoli per 23 anni. Un dramma annunciato all’inizio dell’opera che l’autrice ti porta a “scartare” con calma, involucro dopo involucro, come si farebbe con un pacco regalo sul cui contenuto, ad ogni pagina sempre più chiaro, si ha già un’idea abbastanza precisa fin da principio. Di cosa parla la storia, al di là degli accadimenti, lo spiega chiaramente l’autrice in una delle prime pagine: «Tutti loro avevano infranto delle regole. Tutti loro avevano sconfinato in territori proibiti. Tutti loro avevano violato le leggi che stabilivano chi bisognava amare e come. E quanto. Le leggi che facevano nonne le nonne, zii gli zii, madri le madri, cugini i cugini, marmellata la marmellata e gelatina la gelatina» (p. 41).

Alla fine, narra dell’unica cosa di cui un essere umano può narrare: gli inciampi dell’umanità. Il sottofondo, regolato su un volume che non disturba il filo della trama principale, dipinge un’India a cavallo tra gli anni ’60 e gli anni ’70, alle prese con la “scoperta” del Comunismo e i conseguenti bisticci tra Compagni cinesi e sovietici. Il sistema delle caste è in via di dismissione, ma ancora imperante nella vita reale, e neppure il Sol dell’Avvenire se ne cura più di tanto: «I marxisti – racconta l’autrice – lavoravano all’interno delle barriere sociali: non le sfidavano mai, e allo stesso tempo non mostravano di non farlo. Offrivano una rivoluzione-cocktail. Un mix inebriante di marxismo orientale e induismo ortodosso, insaporito da uno spruzzo di democrazia» (p.78). È così che il dramma personale, quello annunciato, può consumarsi: con il tacito assenso dei “Comunisti” che se ne lavano le mani prima, per fare “fuoco e fiamme” poi, con un cadavere fresco pronto da spremere ai fini de “la Rivoluzione” (un bocconcino appetibile che, se il dramma non si fosse consumato, non sarebbe stato possibile slurparsi).

 

Solo il disegno, a dire il vero piuttosto bruttino, di una specie di elfo/folletto verde, vestito da Peter Pan, con un cappellino da Babbo Natale e un sacco in mano, che ghigna dispettoso verso lo spettatore. Matite colorate e pennarelli. Firmato "G.".
Il Dio delle Piccole Cose (secondo Gilda)

 

Il morto ammazzato, Velutha, è un operaio iscritto al Partito la cui unica disgrazia è quella di essere un Intoccabile, un Paravan; cioè di appartenere a quella categoria sociale che in India era (e probabilmente in molte sue parti ancora è) discriminata rispetto al resto della popolazione. Un Intoccabile che ha amato una Toccabile, una Toccabile che ha amato un Intoccabile: di fronte allo sdoganamento di un tabù, “la Rivoluzione” non può che venir meno (che rivoluzione!). «Compagno, dovresti sapere che il Partito non è nato per favorire le sregolatezze nella vita privata dei lavoratori» (p.303), dice il Compagno Pillai al morto annunciato, poche ore prima della fine del suo cammino: «Un’altra religione che si rivoltava contro se stessa. Un altro edificio costruito dalla mente umana e demolito dall’umana natura» (p. 303), commenta l’autrice. All’ispettore di polizia che gli chiede implicitamente come procedere nei confronti di Velutha, il Compagno Pillai assicura che «Velutha non godeva del patrocinio o della protezione del Partito comunista» (p. 279). Il giorno dopo l’omicidio assalterà con gli altri Compagni (Toccabili) la fabbrica, e dichiarerà ai giornali che «la Direzione aveva coinvolto il Paravan in un falso caso giudiziario perché era un membro attivo del Partito comunista» (p.319). Avrebbe poi liquidato l’intera faccenda come «l’Inevitabile Conseguenza di una Politica Necessaria» (p. 24).

La miseria umana, dopotutto, è qualcosa di universalmente noto che cambia vesti, trucchi e capigliature attraverso i confini geografici e nel corso dei secoli, ma la cui banalità (quella “del male”, come la chiamerebbe Hannah Arendt) resta sempre uguale a se stessa. I miei ricordi hanno avuto diversi sussulti quando, nella lettura, sono arrivata al momento saliente: «L’impulso subliminale che l’uomo ha di distruggere quello che non può né sottomettere né divinizzare. […] Quella mattina Esthappen e Rahel furono testimoni, benché allora non lo sapessero, di una dimostrazione clinica, in condizioni controllate (non era mica una guerra, dopotutto, o un genocidio), dell’aspirazione, insita nella natura umana, al predominio. Alla struttura. All’ordine. Al totale monopolio. […] Se fecero più male a Velutha di quanto non intendessero, fu solo perché ogni affinità, ogni collegamento fra loro e lui, ogni implicazione che lui fosse una creatura come loro, se non altro dal punto di vista biologico, tutto questo era stato spazzato via da molto tempo. Non stavano arrestando un uomo, stavano esorcizzando una paura. […] La banda di Poliziotti Toccabili agì con parsimonia, senza frenesia. Efficienza, e non anarchia. Senso di responsabilità e non isteria. Non gli strapparono i capelli e non lo bruciarono vivo. Non gli tagliarono i genitali per ficcarglieli in bocca. Non lo stuprarono. E non lo decapitarono» (pp. 326-327). Ogni sussulto era un ricordo, in salsa non-violenta e in abitini da sera, del trattamento riservato ai non vaccinati durante “l’Era del Covid”. Ma il sussulto più toccante, quello che mi ha fatto schiudere la bocca, è la conclusione e spiegazione dell’autrice, tanto semplice e pregnante che non vale la pena svilupparne le suggestioni evocate: «In fin dei conti non erano lì per lottare contro un’epidemia già in atto. Dovevano solamente vaccinare una comunità contro un possibile focolaio» (p. 327).

Ovviamente, per chi di quell’Era ha dato tutt’altra lettura, si potrebbe dire di segno opposto alla mia, il paragone apparirà così forzato da risultare assolutamente improprio. Non ho alcuna intenzione di convincere nessuno del contrario, con nessuna inutile argomentazione: ogni epoca e ogni luogo ha i suoi Intoccabili, ed è prerogativa indiscussa dei Toccabili riconoscersi come unica parte nel giusto e ultimo baluardo della civiltà prima della barbarie. Ed è questo il motivo per cui continuerò a difendere, a spada tratta e a tambur battente, ogni “terrapiattista”, “no-vax”, “complottista”, “negazionista” e compagnia cantando che sia pubblicamente attaccato o anche solo dileggiato, per quanto possa singolarmente anche starmi antipatico o sembrarmi intellettualmente ridicolo. La disumanizzazione dell’altro, dei suoi bisogni e della sua dignità, del suo “diritto a esistere” e a esprimersi per quello che è e per come si definisce, per le scelte che compie e per i propri orientamenti (non solo religiosi, sessuali o politici, ma anche scientifici, culturali, valoriali, sanitari), è sempre il primo passo verso un pozzo senza fondo, l’unico che non bisognerebbe mai compiere in nessuna democrazia che voglia conservare questo nome. Si parte dall’isolamento culturale e poi, attraverso impercettibili cambi di gradazione come in una sfumatura che passa tra colori attigui, si arrivano a giustificare le più profonde atrocità, che vengono riconosciute come tali solo a cose fatte, una volta presa l’intera sfumatura tutta insieme: perché prese una per una, nello svolgersi degli eventi, sono, agli occhi dei più, solo Piccole Cose.

«Mammachi diceva a Estha e Rahel che lei si ricordava di un tempo, quando era ragazza, in cui si pretendeva che i Paravan camminassero all’indietro con uno scopino, spazzando le proprie impronte così che i bramini o siriano-ortodossi non si contaminassero passando accidentalmente su un’impronta di Paravan. Ai tempi di Mammachi i Paravan, come gli altri Intoccabili, non potevano camminare sulle strade pubbliche, non potevano coprirsi la parte superiore del corpo, non potevano portare l’ombrello. Dovevano mettersi le mani davanti alla bocca quando parlavano, perché il loro fiato non contaminasse coloro cui si rivolgevano» (p. 85).

 



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