A scuola, alla maturità, avevo portato il tema dei partigiani e degli indifferenti. La mia tesi consisteva sostanzialmente in una netta e univoca condanna morale degli indifferenti, che coi loro silenzi consentirebbero che la storia si svolga secondo i suoi capricci, anche quelli più indegni e nefasti: come se l’uomo non potesse nulla per plasmarla o per condizionarla, come se non fosse, anche il singolo individuo, responsabile delle azioni che omette di compiere di fronte a una cultura che si impone con la forza e con l’arroganza, con lo stigma e con la messa al bando.
Me la prendevo, tra gli altri, con gli Eugenio Montale, che si ritiravano dalla politica e si lasciavano avvolgere dal privato, a coltivare altro: lo spirito, si direbbe, o come si voglia chiamare tutto quel che presuntuosamente riteniamo distingua l’uomo dal resto degli esseri viventi (in realtà non lo sappiamo e non lo possiamo sapere, ma questo è un altro discorso). Ad essere un po’ più precisi, quella che emettevo nei confronti di intellettuali come Montale non era una netta condanna, ma più una mancanza di seria e profonda stima. Come a dire: non ti posso considerare un nemico, ma di certo non sei nemmeno un amico. Sei uno, lì, che al massimo può risultarmi, appunto, indifferente (non per quanto concerne l’opera, ma l’uomo e la sua vita).
Sono passati quasi dieci anni da allora, e oggi, e solo oggi, mi ritrovo nella condizione di rivalutare tutta la questione: adesso la posizione di Montale mi appare in tutta la sua drammaticità, in tutte le sue sfaccettature più profonde. La “quasi-condanna” di allora mi suona oggi stonata, un po’ facile, forse addirittura superficiale, sicuramente poco ponderata. In fondo, mi dico, è normale: a vent’anni della storia e delle sue vicissitudini si è potuto vedere molto poco, e molto poco si è potuto fare nel mondo. Da un certo punto di vista, più personale e “viscerale”, a nulla valgono i secoli di storia che si studiano sui banchi di scuola: le guerre, le culture che cambiano, le conquiste, le rivoluzioni, i soprusi, le invenzioni, l’evoluzione delle scienze e delle arti, dei mestieri, degli stili di vita. Per quanto le si possa studiare, per quanto siano importanti e necessarie per comprendere il presente e interpretare ciò che siamo e ciò che ci accade, sono pur sempre racconti di seconda, terza, quarta mano, e il loro impatto è meno intenso di un’esperienza vissuta in prima persona. A vent’anni qualcuno magari ha seguito un po’ di politica o geopolitica, attivamente o attraverso i giornali, o ha letto di attualità, di costumi e di culture. Ma quanti anni di storia ha visto e vissuto un ventenne? Sei, sette, se ha cominciato ad interessarsi presto. Ma la storia non si fa e non si comprende nei suoi svolgimenti in 6-7 anni, perché i movimenti della storia sono quelli di fondo: quelli che si notano magari in 15, 20 anni, a salire.

A trent’anni comincia ad essere diverso, e chi ha voluto guardare ha potuto vedere parecchio: in 15 anni di osservazione cominciano a notarsi le contraddizioni e i tabù di una società, le narrazioni ricorrenti, i movimenti di fondo che danno una direzione alla storia e indicano verso dove procede il futuro. Non una direzione felice, quella che stiamo seguendo; un percorso che abbiamo intrapreso da diversi anni, da molto prima del Covid, e in cui il Covid finisce per giocare un ruolo attivo molto importante ma non strettamente necessario, né tantomeno esclusivo. Perché le basi culturali con cui affrontiamo la pandemia sono quelle erette nei decenni passati, e non sono un aspetto che può essere modificato dall’oggi al domani. Da questo punto di vista, a voler essere un po’ fatalisti, hanno ragione i fautori del TINA (There Is No Alternative, non ci sono alternative): il modo in cui stiamo gestendo la pandemia, a ben guardare, è l’unico possibile in queste società, con la cultura che abbiamo costruito, con i valori che abbiamo abbracciato e quelli che abbiamo rigettato. Per gestire la pandemia diversamente dovremmo poter contare su una cultura diversa, su altri valori, su altre teste, su altre strutture. E non possiamo.
Quel che il Covid ha sicuramente fatto è stato esasperare tabù e contraddizioni, rendere evidenti ed esplicite narrazioni che prima erano latenti o in sordina, accelerare i movimenti di fondo ed esacerbare tutte le posizioni attualmente rilevanti. In fondo, vista da qui, la storia che stiamo vivendo in questi giorni non è dissimile da quella in cui era immerso Montale più o meno un secolo fa: un mondo che cambia veloce, che accelera bruscamente; intolleranze diffuse e radicali, una politica miope e incapace, posizioni e valori che si polarizzano e poi smettono di dialogare. Un clima soffocante, un presente precario, un futuro ignoto. E, di sottofondo, la sensazione di essere disarmati, impotenti, di fronte al destino dell’umanità.
Oggi guardo con altri occhi Montale e la sua indifferenza, perché capisco pienamente cosa significa vedere un mondo che si spacca, si frantuma in microfazioni, radicalizza i toni e i mezzi con cui porta avanti lo scontro. Capisco che molti riescono a starci dentro senza troppi problemi: si schierano da una parte, o dall’altra, e combattono per la vittoria. Ma capisco anche che altri non ce la fanno, che vorrebbero altro, ma sanno anche che quel “altro” che tanto vorrebbero non è sotto il loro controllo, non è realizzabile, non è “a portata di storia”. Perché vedo e tasto con mano questo clima di paura e di guerra (al Covid e a ciò che vi ruota intorno, oggi) in cui non può, per definizione, trovare spazio il dialogo, il confronto costruttivo. E per chi non è capace di rinunciare a questi strumenti non resta altro che ritirarsi, sopravvivere in altre forme di vita, coltivare e proteggere quello spirito cui accennavo all’inizio, che è l’unica cosa che persone, partiti, fazioni e governi non possono toccare.
[…]
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
[…]
(E. Montale, I limoni, in Ossi di seppia, 1925)
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