La disobbedienza civile e il divorzio alla catalana

La vicenda di Domenico “Mimmo” Lucano, sindaco di Riace arrestato per “favoreggiamento di immigrazione clandestina”, ha messo sotto i riflettori della discussione pubblica il concetto di “disobbedienza civile”, e adesso tutti hanno sulla bocca queste due belle parole.

Secondo la Treccani, “disobbedienza civile” è il «rifiuto da parte di un gruppo di cittadini organizzati di obbedire a una legge giudicata iniqua, attuato attraverso pubbliche manifestazioni». Stando a questa definizione viene da dubitare che quella del sindaco di Riace possa essere chiamata “disobbedienza civile”. Ma il concetto è ormai salito alla ribalta e sembra aver riscosso successo. Al di là del caso specifico che gli ha dato visibilità, quello della disobbedienza civile è un tema molto importante. E merita di essere applicato ad altri contesti più congrui. Ad esempio, è illuminante guardare attraverso gli occhiali della “disobbedienza civile” quanto è successo in Catalogna nei mesi passati. Di questo mi occupo in questo articolo. La vicenda è un po’ più distante dalle nostre vite, ma forse anche di maggiore rilievo per i problemi della demovrazia rispetto a quella del sindaco di Riace. Per chi fosse interessato, in fondo all’articolo offro anche, per comodità, una ricostruzione della vicenda catalana.

 


Filippo VI: 1990 e 2017

«La Catalogna sarà ciò che i Catalani vogliono che sia». Così diceva Filippo VI al Parlamento catalano il 21 aprile 1990, quando non era ancora Re di Spagna, ma “semplice” Principe. Sono passati 28 anni, e lo spirito sembra essere radicalmente cambiato: il 3 ottobre del 2017, due giorni dopo lo svolgimento del referendum (illegale) sull’indipendenza della Catalogna, Filippo ha infranto il silenzio della Corona (che aveva caratterizzato la vicenda fino ad allora) limitandosi a condannare il comportamento illegale dei rappresentanti politici catalani, rei, tra le altre cose, di ritenere che delle “sorti della Spagna” debba decidere il popolo catalano. Un’inversione di rotta, rispetto al ‘90, sugellata nel finale del discorso del 3 ottobre: «In quella Spagna migliore che tutti desideriamo ci sarà anche la Catalogna».

 

Dal referendum all’arresto

Nei giorni scorsi la Procura spagnola ha chiesto, come già da tempo preannunciato, la condanna al carcere per alcuni dei leader catalani protagonisti del referendum indipendentista del 1° ottobre 2017. Da noi, tra i maggiori quotidiani, solo il Fatto Quotidiano ha dato la notizia. Per il resto, come d’altronde accade negli altri Paesi europei non direttamente coinvolti, impera il silenzio. Si è parlato della “questione catalana” solo nelle giornate a ridosso delle violenze dell’1-O (così gli spagnoli chiamano il referendum del 1° ottobre) e in occasione di qualche novità giudiziaria su Carles Puigdemont (ex presidente del governo catalano destituito a ottobre dal governo spagnolo di Mariano Rajoy, poi “in esilio” in Belgio, arrestato in Germania e adesso libero a Waterloo, benché ricercato in Spagna). Eppure in Catalogna sta accadendo qualcosa di importante, che tocca i principi democratici; qualcosa che, a dispetto delle apparenze, riguarda anche noi, e perciò reclama la nostra attenzione.

 

Cariche della polizia durante il referendum del 1° ottobre 2017
Cariche della polizia durante il referendum del 1° ottobre 2017 in Catalogna

 

Qui non voglio parlare delle vicende storiche alla base dell’identità della Catalogna, che pure sono importanti per comprendere e valutare quanto avviene oggi, ma rompere la cortina di fumo calata su quanto accade accanto a noi. Troppo lungo riassumere anche solo i precedenti più recenti che hanno portato allo scontro tra Madrid e Barcellona. Mi limito a richiamare due date: il 2006, quando il nuovo Statuto d’Autonomia della Catalogna, proposto dal Parlamento catalano e approvato previa modifica dal Congresso spagnolo, viene ratificato in un referendum catalano; il 2010, quando il Tribunal Constitucional lo modifica ulteriormente su istanza del Partido Popular di Rajoy.

«L’azione combinata del Congresso dei Deputati e del Tribunale Costituzionale hanno convertito la proposta catalana in un testo irriconoscibile», ha asserito Puigdemont in un discorso ufficiale il 10 ottobre del 2017, in piena crisi ispano-catalana. «E conviene ricordarlo e sottolinearlo: questo testo irriconoscibile, doppiamente modificato e non ratificato dai catalani, è la legge attualmente in vigore. Questo è stato il risultato dell’ultimo tentativo della Catalogna di modificare il suo status giuridico-politico attraverso le vie costituzionali, ovvero un’umiliazione», ha proseguito l’allora presidente della Generalitat (il governo catalano). Oggi, a seguito della proclamazione di indipendenza da parte della Generalitat e del Parlamento catalano, 6 esponenti politici catalani sono in carcere e rischiano tra i 16 e i 25 anni di reclusione, mentre altri 7 (tra cui lo stesso Puigdemont) sono “in esilio” all’estero per evitare l’arresto, che impedirebbe loro di costruire la Repubblica Catalana.

 

Quando un programma elettorale non conta nulla

Agli indipendentisti catalani sono state mosse diverse critiche: sono una banda di sgangherati che non sa come uscire dalla situazione; si sono autodelegittimati quando hanno infranto la legge; non raccolgono sufficienti consensi (poco sotto il 50% dell’elettorato). Eppure vorrei chiedere ai miei connazionali lo sforzo di mettersi nei panni di cittadini che vogliono uno Stato indipendente e che vogliono arrivarci senza usare violenza, di mettersi nei panni di una classe politica eletta con un programma esplicitamente indipendentista che prevede una dichiarazione di indipendenza e la redazione di una Costituzione.

«Per 18 volte, e in tutti i modi possibili, si è chiesto di aprire un dialogo per concordare un referendum come quello che ha celebrato la Scozia il 18 settembre 2014», ha ricordato Puigdemont nell’intervento già richiamato, aggiungendo: «Se in una delle democrazie più antiche, quale è il Regno Unito, si è potuto procedere così, perché non si può fare anche in Spagna?». Ancora, in un articolo comparso sul Guardian il 6 novembre 2017, Puigdemont sottolinea: «I votanti che ci hanno supportato [alle elezioni del 2015, nda] hanno sempre saputo quale fosse il nostro proposito. Eppure due anni dopo queste elezioni siamo accusati di sedizione, cospirazione e ribellione per aver compiuto un programma elettorale che non abbiamo mai nascosto».

 

Tabella di marcia indipendentista per le elezioni del 2015
Tabella di marcia indipendentista divulgata dalla coalizione “Junts pel Sí” nella campagna elettorale del 2015

 

«Coloro che rappresentano la sovranità popolare devono ascoltare, obbedire e dare compimento al mandato che gli è stato accordato», aveva ribadito Quim Torra, presidente della Generalitat dal 17 maggio di quest’anno, nel suo discorso di investitura. Possiamo davvero biasimarlo o contraddirlo? Com’è possibile che in un Paese ci si possa candidare con un programma politico che, alla luce dei fatti, non può essere attuato perché, se lo si fa, si finisce in carcere per 25 anni?

 

Il silenzio dell’Unione Europea

Probabilmente in punta di “diritto costituito” la Catalogna non può avere ragione. Ed è chiara la sensatezza di ciò che ha ricordato l’allora premier spagnolo Rajoy in apertura della seduta del Senato del 27 ottobre 2017, quando è stata approvata l’attuazione dell’articolo 155 della Costituzione spagnola (ovvero una sorta di commissariamento della Catalogna): «un Governo, qualunque Governo di qualunque paese, non può assistere indifferente, come se non fosse successo niente, a un evento come questo», come quello della dichiarazione d’indipendenza catalana (che Barcellona dichiara, definendola però allo stesso momento “sospesa”, lasciando tutti nell’incertezza). È lecito però chiedersi se l’atteggiamento del Governo Rajoy sia stato quello più opportuno: l’allora premier spagnolo, infatti, ha deciso di rispondere alla classe politica indipendentista catalana con il 155. Ma cosa ha risposto agli oltre due milioni di catalani che vogliono l’indipendenza? Cosa ha risposto a quegli oltre due milioni di cittadini che si sono recati alle urne consapevoli di mettere a repentaglio la propria incolumità? Due milioni di elettori non sono esattamente bruscolini, e in Catalogna rappresentano quasi la metà dell’elettorato. Cosa risponde a loro Jean-Claude Juncker, che dal suo scranno alla Commissione Europea si è trincerato dietro quel “è un affare interno della Spagna” da Ponzio Pilato? Cosa rispondono gli altri Paesi europei, che difendono solo l’autodeterminazione dei popoli colonizzati, dimenticando che molti più popoli di quanti siamo disposti a riconoscere sono stati in qualche modo “colonizzati”, anche se in epoche più lontane? E cosa diciamo noi, cittadini di uno Stato democratico, ai catalani che vorrebbero poter decidere del loro futuro?

Qualcuno obietta che infrangere la legge non sia un buon modo per essere presi in considerazione, e che gli indipendentisti hanno altre strade a disposizione (come la modifica della Costituzione per consentire lo svolgimento legale del referendum). Ma come mai, per la stampa italiana, il sindaco di Riace che ha infranto la legge è una sorta di “eroe” della “disobbedienza civile” ingiustamente punito, mentre gli indipendentisti catalani sono reclusi in carcere nel quasi completo silenzio dei nostri giornali?

 

Una delle tante manifestazioni catalane per la liberazione dei "prigionieri politici", arrestati in seguito alla loro disobbedienza civile
Una delle tante manifestazioni catalane per la liberazione dei “prigionieri politici”, arrestati in seguito alla loro disobbedienza civile

 

I politici catalani lo hanno sottolineato in tutte le salse: «Se i valori fondamentali Europei sono a rischio in Catalogna, saranno a rischio anche in Europa. Decidere democraticamente sul futuro di una nazione non è un crimine» (Puigdemont, 22 ottobre 2017), «Il popolo catalano ha inviato un messaggio netto e democratico che dev’essere ascoltato e rispettato» (Torra, 12 maggio 2018), «Consentire al Governo spagnolo di non dialogare […], di imporsi militarmente, di metterci in prigione per 30 anni, significa mettere fine all’idea di Europa ed è un errore che pagheranno molto caro tutti gli europei» (Puigdemont, 31 ottobre 2017). Ma le loro parole, in Europa, sono avvolte da un assordante silenzio che, unito alla chiassosa indignazione sugli scontri dell’1-O, lancia un messaggio sinistro: perché la vicenda catalana riceva attenzioni, è necessario che si verifichino episodi di violenza generalizzata. Anche per questo è grave il silenzio dell’UE, che corre il rischio di lasciar esacerbare gli animi ispano-catalani e di portare a episodi più spiacevoli di quelli dell’1-O.


 

Breve ricostruzione della vicenda del referendum catalano

Il 1° ottobre 2017 in Catalogna si svolge un referendum di autodeterminazione che chiede ai Catalani se la Catalogna debba o meno costituirsi come Stato indipendente in forma di Repubblica. Il referendum si svolge in un clima di violenza generalizzata, con la polizia che irrompe nei collegi elettorali, carica le persone in coda ai seggi e spara proiettili di gomma contro cittadini a volto scoperto e mani alzate. Lo Stato spagnolo, infatti, non ha riconosciuto la validità del quesito referendario, promulgato contravvenendo alle leggi spagnole, e ha quindi inviato la polizia spagnola nei collegi elettorali catalani per impedire il voto. Le immagini delle violenze subite dai votanti fanno il giro del mondo, scatenando l’indignazione di media, politici e cittadini.

Nonostante gli sforzi dello Stato spagnolo, che già nei giorni precedenti al voto ha tentato di impedirne lo svolgimento con ogni mezzo a sua disposizione (sospensione delle leggi di promulgazione del referendum, perquisizione di uffici pubblici, arresto di alcuni deputati, confisca di urne e schede elettorali), quasi metà dell’elettorato catalano riesce comunque a votare (43,03% degli aventi diritto), sebbene in condizioni che non consentono il corretto svolgimento delle votazioni. Il referendum vede la vittoria degli indipendentisti repubblicani, che con il 90,18% di Sì (contro il 7,83% di No e l’1,98% di schede bianche) danno il via al “processo di indipendenza” previsto dalla legge di promulgazione del referendum, sospesa, in attesa di giudizio di costituzionalità, dal Tribunal Constitucional spagnolo.

 

I festeggiamenti per la proclamazione d'indipendenza
I festeggiamenti per la proclamazione d’indipendenza a Barcellona

Per una ventina di giorni, dopo l’esito del voto, la situazione resta in stallo: i Catalani, il 10 ottobre, dichiarano e “sospendono” l’indipendenza, e chiedono un dialogo al governo spagnolo, che però è disposto a dialogare solo dopo che la situazione in Catalogna sia tornata alla legalità, con la rinuncia esplicita a proclamare l’indipendenza dalla Spagna. Gli indipendentisti catalani, che vorrebbero un dialogo senza condizioni, il 27 ottobre 2017 proclamano l’indipendenza. Lo stesso giorno, il Senato spagnolo vota l’applicazione dell’art. 155 della Costituzione spagnola, che avvia una sorta di commissariamento della Catalogna: il presidente catalano, il capo dei Mossos d’Esquadra (la polizia catalana) e altre cariche pubbliche vengono rimossi, i poteri del Parlamento catalano vengono momentaneamente ridotti e la gestione della vita politica catalana finisce dritta nelle mani di Madrid. Nei giorni successivi, alcuni membri del governo catalano vanno “in esilio” all’estero, mentre quelli rimasti vengono arrestati con l’accusa di malversazione, sedizione e ribellione. Il “commissariamento” si concluderà solo il 17 maggio 2018, quando il nuovo presidente della Generalitat, Quim Torra, si insedierà ufficialmente al governo.

Torna all’inizio dell’articolo



Se vuoi ricevere i nuovi articoli via mail, puoi inserire il tuo indirizzo di posta elettronica qui sotto, cliccare su "ISCRIVITI" e seguire le indicazioni presenti nella mail di avvenuta iscrizione che ti arriverà.
Per informazioni sulla raccolta dati leggi la Privacy Policy.

SPAZIO AI COMMENTI

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *