Qualche anno fa, nel 2015, nella colonna delle “amenità varie” pubblicate dai quotidiani nazionali, spopolava un titolo su un misterioso vestito che non si capiva bene se fosse bianco e oro oppure blu e nero. Ammetto che la cosa mi incuriosì da subito, ma non volevo regalare clic a quella colonna del giornale, quindi passai oltre. Un paio d’anni dopo, bisticciando con il mio compagno su quale fosse il confine ultimo tra il verde e il blu (sembrava davvero importante stabilire una volta per tutte, e in maniera incontrovertibile, se la mia maglietta fosse turchese oppure verde acqua), mi tornò in mente la storiella del vestito e decisi di fare la prova del nove, giusto per distrarci dalla maglietta e trovare un nuovo passatempo (per inciso: la grave questione della maglietta è tutt’ora irrisolta ed è stata negli anni fonte di innumerevoli diatribe).
Ovviamente, una volta seduti comodamente al computer per osservare la fotografia in questione, io vidi una cosa, lui ne vide un’altra. Per me era evidente che il vestito fosse bianco e oro, e non mi capacitavo del fatto che qualcuno potesse vederlo blu e nero; lui, viceversa, era sconcertato dal fatto che io lo vedessi bianco e oro e cominciava a prendere in seria considerazione l’ipotesi che io fossi gravemente daltonica. Chiaramente è una cosa che destabilizza chiunque, perché vedere blu dove qualcun altro vede bianco e vedere nero dove qualcun altro vede oro (e viceversa) fa crollare molte delle certezze che nella vita di tutti i giorni diamo inconsapevolmente per scontate (tipo che, salvo daltonici e cuginanza varia, il blu è blu e il bianco è bianco – chi oserebbe dire il contrario?). Ovviamente, siccome io e il mio compagno eravamo in piena “guerra dei colori”, dovevamo assolutamente capire chi avesse ragione e chi torto, perché era chiaro che uno dei due “vedeva giusto” mentre l’altro invece “vedeva sbagliato”. A quanto pare “aveva ragione” lui (più avanti spiegherò il motivo delle virgolette): l’abito fotografato, se visto dal vivo, pare che fosse effettivamente blu e nero.
In realtà, ben presto smise di appassionarci la diatriba su chi avesse ragione: sempre alla ricerca di un perché, di una spiegazione, ci appassionavamo all’argomento della percezione proprio come il fanciullino di Pascoli si immerge nel mondo esterno per risucchiarne ogni più piccolo dettaglio. In fondo, sapere chi aveva ragione non ci bastava: quel che contava era il perché, qual era il problema, dov’era l’inghippo. Insomma: qual era il mio problema? Perché vedevo “colori sbagliati”? Alla fine, dopo una serie di ricerche su internet, venne fuori che tutto dipende da come ciascuno di noi interpreta l’illuminazione cui è soggetto il vestito. Cioè, come spiegavano le fonti più autorevoli del web, siccome l’immagine è un tantino sovraesposta e il taglio dell’inquadratura dà informazioni incomplete circa l’ambiente in cui è inserito il vestito, i colori appaiono in effetti “ambigui” (in effetti, ad essere puntigliosi cadrebbe in errore anche chi vede l’abito blu e nero, dato che, se vengono isolati i diversi pezzi del vestito, si nota chiaramente che i colori corretti sono azzurro e marrone). Il punto è che per interpretare il colore di un oggetto il nostro cervello prende in considerazione un’infinità di altri fattori solo indirettamente collegati al colore: il tipo di illuminazione circostante, per esempio, o la presenza di parti in ombra, nonché le esperienze pregresse che abbiamo accumulato sullo stesso oggetto o su oggetti simili. A noi esseri umani, infatti, non interessa affatto sapere in assoluto di che colore è un oggetto: ciò che ci interessa è poterlo riconoscere sempre, nonostante le estreme variazioni dell’illuminazione cui assistiamo nel corso della giornata. Dunque un abito bianco che per via della luce naturale assume una tonalità azzurrognola, continua ad essere interpretato dal nostro cervello come bianco: per usare un paragone, è come se quel colore azzurrognolo fosse il colore “lordo”, dunque il nostro cervello toglie la “tara” (la luce naturale, che tende verso il blu) e registra solo il “netto” (il bianco originale del vestito).
Il risultato, per l’immagine in oggetto, è che chi “pensa” che il vestito sia soggetto a un’illuminazione artificiale lo vede blu e nero; chi invece “pensa” che il vestito non sia illuminato e resti perciò in penombra lo vede bianco e oro. Questo avviene perché la fotografia non dà, appunto, informazioni sufficienti sul tipo di illuminazione cui è esposto il vestito: la luce è artificiale o naturale? L’abito è illuminato o in penombra? La riproduzione fotografica, da sola, non consente di stabilirlo con certezza. Perciò il nostro cervello la “completa” fantasiosamente: non possiamo mica vedere due “colori non colorati” (o meglio, due colori ambigui) solo perché le informazioni non sono sufficienti a stabilirli con certezza, e porsi il problema sarebbe una gran perdita di tempo, perciò giustamente il nostro cervello ovvia all’incertezza scegliendo la prima opzione a disposizione e prendendola per incontrovertibilmente vera e corretta. Il vestito è bianco e oro oppure blu e nero, non un po’ questo un po’ quello, né forse così e forse colà: blu e nero, stop, problema risolto, andiamo oltre, dice il cervello.
In fondo, è un fenomeno che conosciamo tutti, lo stesso di tutte quelle immagini in cui si può vedere ora una raffigurazione, ora l’altra (ad esempio una giovane donna oppure un’anziana signora). Solo che mentre, di norma, quando guardiamo un’immagine come quella qui sopra riusciamo tutti, con un po’ di pazienza, a scorgere “l’altra faccia della medaglia”, con il vestito sembrava proprio non funzionare: per quanto ci sforzassimo di vedere l’immagine come la vedeva l’altro, né io né il mio compagno riuscivamo nell’impresa. Il mistero si infittiva, cercammo ancora. Secondo una ricerca condotta da un neuroscienziato che coinvolgeva 13mila persone, ciascuno di noi sarebbe “condannato” a vedere il vestito in un modo o in un altro a seconda delle sue abitudini di dormiveglia: chi vive maggiormente durante le ore di luce naturale interpreterebbe il vestito come soggetto, appunto, a luce naturale e lo vedrebbe pertanto bianco e oro (l’azzurro viene “azzerato” al bianco perché ritenuto parte dell’illuminazione, mentre il marrone viene interpretato come oro perché considerato in penombra, poco illuminato); chi invece vive soprattutto col buio, sotto gli influssi delle luci artificiali, interpreterebbe l’illuminazione come artificiale e lo vedrebbe pertanto blu e nero (sia l’azzurro che il marrone vengono automaticamente scuriti e interpretati come blu e nero, perché ritenuti illuminati e perciò “alterati” da una luce artificiale, che schiarisce i colori e tende verso il giallo).
Poi, un anno e mezzo fa, a febbraio 2020, poco prima che gli ospedali lombardi e veneti cominciassero a riempirsi di persone con i polmoni distrutti dal Covid, presa dall’imbarazzo di avere presenti, allo stesso tavolo, il mio compagno e mia madre, ho ritirato fuori la foto per scoprire di che colore lo vedeva mia madre. In realtà non ricordo affatto come lo vedesse lei, perché la mia attenzione fu completamente catturata da una sconvolgente scoperta: adesso il mio compagno vedeva l’abito bianco e oro, proprio come me. Vero, il dispositivo su cui abbiamo guardato l’immagine (cellulare) non era lo stesso della prima volta; il luogo e di conseguenza l’illuminazione non erano gli stessi; ed erano passati anni, perciò era assolutamente possibile che il ritmo sonno-veglia del mio compagno fosse leggermente cambiato, quel tanto che basta per indurre il suo cervello ad interpretare la stessa “realtà” in maniera diversa. Epperò, diamine, anche io volevo riuscire a vederlo con altri colori! Quindi mi sono messa lì a guardare insistentemente l’immagine: ho provato a inclinare il cellulare, a concentrarmi su alcuni dettagli e poi su altri; ho provato a socchiudere gli occhi, ad allontanarmi e avvicinarmi, ora più rapidamente ora più lentamente; con un occhio, con l’altro, coprendo parti dell’immagine; poi combinando insieme, come capitava, tutte queste istintive micro-operazioni. E niente, a un certo punto l’ho visto blu e nero. Così, di punto in bianco, senza preavviso e con mio grande stupore (in fondo non credevo davvero che sarebbe successo, la consideravo solo una di quelle imprese palesemente fallimentari in cui di tanto in tanto mi piace lanciarmi). Devo dire che è stato piuttosto emozionante; e sconcertante. Già, perché non era solo una vaga impressione: quel vestito era davvero diventato distintamente e incontrovertibilmente blu e nero. E, cosa ancor più destabilizzante, non c’era più verso di tornare a vederlo bianco e oro! La cosa mi faceva letteralmente impazzire. Dunque, ovviamente, mi lanciai nuovamente nell’impresa: e via con tutte le operazioni di prima, questa volta alla ricerca del più familiare bianco e oro. È stato davvero faticoso, ma dopo un po’ di tempo e vari tentativi andati a vuoto, sia io che il mio compagno riuscivamo a passare con relativa facilità da un’interpretazione all’altra, proprio come capita guardando l’immagine della vecchia e della giovane. E si può dire davvero, nel caso del vestito come nel caso delle due donne, che un’interpretazione sia corretta e l’altra sbagliata?
In realtà no: dire che chi vede quel vestito blu e nero vede bene e chi lo vede bianco e oro vede male sarebbe forse corretto se il vestito si potesse vedere di persona, inserito nel suo contesto originale, non estrapolato dal contesto e “falsato” dallo strumento di osservazione “macchina fotografica” (e poi “supporto di riproduzione”). Ma quando noi guardiamo l’immagine non vediamo il vestito, bensì una sua riproduzione, una sorta di “traduzione” da oggetto a fotografia (e le traduzioni, come del resto tutto all’infuori della matematica pura, non sono una scienza esatta). Ovvero: il vestito sarà anche blu e nero (io non lo so, non l’ho visto di persona), ma la fotografia che è stata scattata è nel complesso ambigua e non consente di sancire da sola, una volta per tutte, il colore dell’abito riprodotto. Ciò che vediamo quando osserviamo l’immagine è incompleto, e l’unico modo per interpretarlo e dargli un senso è usare la fantasia per riempire le lacune, secondo le inclinazioni che ci sono proprie come individui. Non è corretto nemmeno affermare che dovremmo tutti vedere quell’abito azzurro e marrone, come lo vediamo se “scomponiamo” le varie parti dell’immagine. Perché in realtà, come già detto, a noi non interessa affatto conoscere il colore preciso del vestito in quel determinato momento sotto quella determinata illuminazione: quel che ci interessa è dare un’interpretazione della situazione che ci consenta di orientarci nel mondo, e dunque ci è sommamente utile reinterpretare i colori alla luce del contesto in cui sono inseriti (o in cui supponiamo siano inseriti, come più spesso accade per mancanza di informazioni complete e univoche).
Tutto questo per dire cosa? Una cosa molto semplice, quasi banale, che troppo spesso ci si dimentica. La visione che noi abbiamo della “realtà” è come la fotografia di quel vestito: ambigua. Perché non c’è una realtà “oggettiva” da noi osservabile “allo stato puro”, rinunciando ai nostri strumenti di osservazione, che sono tanti, ciascuno con le sue caratteristiche, con i suoi “difetti”. Tutto quel che “vediamo” in senso lato (tutto ciò di cui veniamo a consapevolezza, tutto ciò che noi percepiamo come “realtà oggettiva”) è filtrato: dalla nostra cultura, dai nostri sensi, dalle nostre esperienze, dal contesto che ci circonda, dalle contingenze… E spesso, molto più spesso di quanto possiamo pensare, noi esseri umani ci ritroviamo proprio nella situazione descritta: guardiamo le stesse cose, abbiamo le stesse informazioni e la stessa capacità di “leggere” il mondo, ma uno vede bianco e l’altro vede blu, e ciascuno pensa sia l’altro a sbagliare. E dice: ma sei daltonico? Ma non lo vedi che è bianco e oro? Ma che dici, non prendermi in giro, lo vedo benissimo che è blu e nero! E giù a darci degli idioti, degli ignoranti, degli egoisti o degli allocchi.
Ecco, dovremmo ricordarcene, quando parliamo dei vaccini e della gestione della pandemia: noi non guardiamo mai l’abito, ma sempre la foto, e la foto non è mai completa e univoca. Guardiamo, per la precisione, le diverse “fotografie” scattate dai vari medici e scienziati, ciascuno con la sua “macchina fotografica”, con il proprio stile, con la propria prospettiva e con le proprie tecniche. Gli scienziati stessi, a dispetto di quanto ritiene il senso comune, non possono vedere “il vestito”, la realtà nella sua completezza e organicità, perché per dare senso a quel che vedono anche gli esperti devono ricorrere ad interpretazioni analoghe a quelle che compie il nostro cervello per decifrare i colori; e anch’essi, come una macchina fotografica, divengono “strumento” di conoscenza: ciascuno con le sue caratteristiche, i suoi difetti. Teorie e tecniche di riferimento, strumenti d’osservazione, assunti e ipotesi di partenza possono infatti variare (anche molto) da scienziato a scienziato, da scuola a scuola, e contribuiscono a ridefinire ciò che lo scienziato osserva quando guarda alla “realtà osservabile”, proprio come il nostro cervello ridefinisce i colori dell’abito in fotografia.
Di fronte alla fotografia dell’abito, passare dalla visione in “bianco e oro” alla visione in “blu e nero” e viceversa non è facile, perché il processo non è pienamente nel nostro controllo; non sempre e non tutti ci riusciamo; e non basta che qualcuno ci indichi le varie parti dell’immagine e ci ripeta che “guarda, questo è blu e questo è nero” per cambiare la nostra percezione e l’interpretazione che diamo della situazione. Quello che possiamo fare, come cittadini (ma anche come scienziati, sebbene in maniera diversa), è semplicemente ricordarci che quella che viviamo come vera e incontrovertibile è solo una interpretazione tra le tante possibili, che arbitrariamente o casualmente scegliamo perché non possiamo fare altrimenti. Saper dire “Io vedo il vestito bianco e oro, ma ti credo, ti credo che tu lo vedi blu e nero, e non possiamo stabilire chi è nel giusto”: questo significa essere tolleranti, rinunciare alla guerra e aprirsi alla possibilità di osservare la realtà in tutte le dimensioni che riusciamo a cogliere. Perché c’è sempre qualcosa che non riusciamo a cogliere, ed è proprio il confronto pacifico con chi vede il mondo in modo radicalmente diverso da noi che ci consente di progredire e arricchirci. Gli esseri umani non hanno mai guadagnato niente quando si sono arroccati sulle loro posizioni disconoscendo la validità delle posizioni, delle percezioni e delle interpretazioni altrui. Oggi, con tutto quel che sta accadendo, è la cosa più importante da tenere a mente.
Per la cronaca: a tutt’oggi riusciamo ancora entrambi a vedere l’abito nei due modi possibili, con un minimo di sforzo e qualche piccolo accorgimento.
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