Di fronte a fenomeni come un’immigrazione difficile da gestire e agli attentati di matrice islamica che si sono susseguiti in questi anni in Europa e nel mondo, l’aut-aut tra libertà e sicurezza è diventato un dilemma all’ordine del giorno.
Nel 2016, ad esempio, la decisione del governo austriaco di reintrodurre i controlli alla frontiera del Brennero ha fatto molto discutere e ha occupato a lungo il dibattito pubblico. Oggi accade altrettanto con la decisione del governo italiano di “chiudere i porti” e respingere gli immigrati clandestini di cui il nostro Paese, in quanto penisola, è “facile preda”. Ciò che infastidisce e preoccupa molti è che l’Austria e l’Italia, per rispondere alla domanda di sicurezza proveniente dalla popolazione, si sono dimostrate disposte a sacrificare (riducendola) la libertà di circolazione dei cittadini (o degli aspiranti tali) all’interno dell’Unione Europea.
La questione della chiusura dei porti in Italia è complessa e tira in ballo rilevanti considerazioni di diversa natura; in particolare ci pone davanti a dilemmi etici ampiamente dibattuti nel nostro Paese, che fanno discorso a sé e che vorrei considerare in altra occasione. Tuttavia, il tema degli sbarchi in Italia può essere osservato anche da una diversa angolatura, isolando gli aspetti che riguardano i principi della libertà e della sicurezza.

Sul tema la cittadinanza sembra spaccata in una frattura difficile da risanare: da un lato abbiamo chi, per esigenze di sicurezza interna, è disposto a rinunciare alla privacy e a qualche libertà (proprie, come nel caso della chiusura delle frontiere al Brennero, o degli altri, come nel caso della chiusura dei porti in Italia); dall’altro lato della barricata sono schierati coloro che sono disposti a correre qualche rischio in più per tutelare i diritti di libertà (di circolare, di trovare un luogo in cui vivere una vita dignitosa, di andarsene da un Paese in guerra o in carestia). Tendenzialmente, negli ambienti di sinistra si preferisce la seconda soluzione, mentre in quelli di destra si predilige la prima. Ma né l’una né l’altra convincono; non a caso è un tema “anziano”, che ha suscitato e continua a suscitare innumerevoli discussioni.
Libertà e sicurezza, nell’opinione pubblica e nella vita di tutti i giorni, sono due principi incompatibili: se scegliamo la prima rinunciamo alla seconda, e viceversa. Sono cose che conosciamo tutti: dopo l’11 settembre, ad esempio, le nostre società e i nostri governi hanno preferito aumentare la sicurezza negli aeroporti e nei voli di linea, sottoponendo i passeggeri a controlli talvolta invadenti, arrivando a ridurre o sopprimere la nostra libertà di portarci in viaggio determinati oggetti ritenuti pericolosi (come i rasoi, che devono essere conservati in appositi contenitori, o i barattoli di crema, che non possono superare certe misure). Posti di fronte a queste alternative, siamo tenuti di volta in volta a scegliere se salvaguardare le nostre libertà oppure la nostra sicurezza. L’incompatibilità, però, è solo una faccia della medaglia che ritrae due principi che sono entrambi, a ben guardare, imprescindibili per la nostra società.
L’altra faccia della medaglia, solitamente trascurata, ci dice infatti una cosa un po’ più sottile, che ci impone di andare oltre una visione in bianco e nero: non riusciamo ad usufruire delle nostre libertà se non viviamo in una società sicura, così come non riusciamo a sentirci sicuri in una società che non ci riconosce libertà. Da cos’altro muove, infatti, l’imperativo dei diritti e delle libertà, se non dal fatto che avere i nostri diritti di cittadini liberi ci fa sentire sicuri e protetti dagli abusi di un potere più grande di noi, come quello dello Stato, delle forze di polizia, della magistratura? E la richiesta di maggiore sicurezza, oltre che dalla paura istintiva di vedersi minacciati, non proviene forse anche dalla necessità di difendere le nostre libertà?

Da questa prospettiva, libertà e sicurezza non sono poi “nemiche per la pelle”: sono due forme di difesa, due diritti, due principi che non sempre sono contrapposti, e che anzi spesso si alimentano a vicenda. Crediamo davvero di poter tranquillamente godere delle nostre libertà anche se il nostro Paese è sconvolto da un attentato al giorno, o se non siamo in grado di controllare e gestire i flussi di persone che attraversano il nostro Paese? Pensiamo forse di poterci sentire sicuri in uno Stato che non ci concede le libertà per agire ed esprimerci, che non ci riconosce diritti alla privacy e alla difesa?
Dopotutto, i diritti politici e civili della democrazia (e le libertà ad essi collegate) sono nati come una forma di difesa non dissimile da quella che lo Stato pone in essere contro le minacce esterne. L’unica differenza è che quando parliamo di “sicurezza” pensiamo alla necessità di difenderci dai criminali e da minacce provenienti da altri Stati, mentre quando parliamo di “diritti e libertà” pensiamo alla necessità di difenderci da una possibile deriva autoritaria del nostro stesso Stato.
Vedere la libertà e la sicurezza come due principi contrastanti ci fa perdere di vista la forza e la debolezza del nostro tipo di società, che è proprio quella di tenerle insieme: ne esce irriconoscibile se perdiamo le nostre libertà, ma succede altrettanto se perdiamo la nostra sicurezza. Forse, anziché chiederci se è più importante godere delle nostre libertà oppure incrementare la sicurezza, dovremmo porre la questione in altri termini: ci sono dei diritti e delle libertà che riteniamo più importanti di altri, perché ci fanno sentire sicuri e protetti dalle minacce esterne e interne? È importante individuarli, per poterli conservare e difendere quando chiediamo «più sicurezza»: chiedere più sicurezza non significa meramente rinunciare alle proprie libertà, ma individuare e salvaguardare quelle che riteniamo imprescindibili nei momenti in cui crediamo che ci sia il rischio di perderle tutte.
Articolo uscito, in una versione parzialmente diversa, il 22 aprile 2016 sull’Alto Adige.
SPAZIO AI COMMENTI