Lettera aperta a Luigi Di Maio

Gentile ministro Di Maio,

ho letto con interesse il suo post su facebook del 12 ottobre in merito agli eventi della manifestazione studentesca dello stesso giorno a Torino. Mi fa piacere che lei non sia stato tentato dalle posizioni di altri leader di partito, che negli ultimi anni hanno appiattito sotto il termine di “violenza” ogni protesta sociale che si discostasse di un dito dal conformismo. Indubbiamente bruciare dei manichini che raffigurano il volto di qualcuno porta con sé tracce di violenza, e immagino che se su quei manichini ci fosse stata la mia faccia ne sarei rimasta impressionata, e forse avrei valutato la cosa con maggiore severità; come farebbero molti altri, credo; magari anche gli stessi manifestanti.

Ma, al di là delle sue parole in merito alle proteste “sopra le righe”, che alcuni possono condividere di più e altri di meno, mi ha fatto piacere la sua apertura a “tutti gli studenti”, al confronto diretto. A dire il vero sono parole che forse tutti i ministri hanno pronunciato, e si sono spesso rivelate semplici specchietti per le allodole. Ma ho deciso di lanciare una sfida, a lei ma anche a me: ho deciso di prenderla sul serio. E così le sto scrivendo. Mi scuso fin da subito per la lunghezza di quanto segue, ma come lei sa le opinioni devono essere argomentate, e gli argomenti sono ingombranti.

 

Manichini di Salvini e Di Maio prendono fuoco
Manichini di Salvini e Di Maio incendiati durante la manifestazione del 12 ottobre 2018 a Torino

Non so se quello che penso io è condiviso anche dagli altri studenti; probabilmente no, e sicuramente non da tutti. Ma lei ha chiesto il parere di tutti gli studenti, «non soltanto dei delegati», e d’altra parte mi sento in diritto di dire la mia, dopo diversi anni di attenta osservazione del mondo universitario. Anche perché, duole dirlo, quello della rappresentanza studentesca universitaria è un mondo particolarmente chiuso, dove si fa fatica a trovare il pluralismo dei colori della politica e della cultura: i rappresentanti sono poco rappresentativi (e tendenzialmente poco votati) e gli “studenti semplici” non hanno sempre sufficienti occasioni per esprimersi e confrontarsi sulle proprie idee, quando ne hanno.

Qui non voglio ribadire quanto sia sconfortante, ad esempio, l’esistenza di studenti “idonei” a ricevere la borsa di studio ma “non beneficiari” per via della scarsità dei finanziamenti pubblici: è una situazione che, per gli evidenti paradossi che presenta, si commenta da sé, ed è una situazione che, va riconosciuto, la rappresentanza studentesca sta già, a suo modo, combattendo. Preferisco concentrarmi su ciò che i rappresentanti, per lo più, non affrontano, su ciò di cui si tende a non parlare o a parlare poco o nel modo (secondo me) sbagliato. E voglio farlo dal mio punto di vista di studentessa, ignorando volutamente altri tipi di problemi, anch’essi gravi, che colpiscono e coinvolgono altre componenti del mondo universitario.

Uno dei punti principali che a mio parere un serio governo dovrebbe affrontare in campo universitario è l’inadeguatezza del sistema del 3+2. Il punto è che, semplicemente, non funziona: doveva servire a velocizzare il percorso universitario degli studenti, ma come dimostrano i dati che ogni anno escono sui giornali l’esperimento è miseramente fallito (anzi, spesso le procedure burocratiche relative al passaggio dal “3” al “2” rallentano i percorsi di studio). Doveva servire a semplificare la mobilità degli studenti tra gli Atenei e tra i corsi di laurea, ma basta chiedere a chiunque abbia provato ad effettuare un passaggio di corso in itinere per scoprire che, piuttosto che semplificare la cosa, il sistema dei crediti e dei settori disciplinari l’ha resa praticamente impossibile: in molti casi nemmeno chi si voglia spostare all’interno della stessa classe di laurea, semplicemente passando da un Ateneo all’altro, riesce ad avere la soddisfazione di vedersi riconosciuti tutti gli esami superati nell’Ateneo di provenienza. Dicono che questo accade perché si vuole preservare l’autonomia e la specificità dei percorsi dei singoli Atenei, ma com’è possibile che un percorso didattico riconosciuto legalmente a livello nazionale non venga riconosciuto dai singoli Atenei? Certo in questo non aiuta la completa eliminazione di fatto dei cosiddetti “piani di studio liberi” (che poi erano quelli con cui si sono laureati molti dei professori oggi in ruolo), formalmente previsti nei regolamenti ma in realtà non consentiti: una situazione assurda, lasciata galleggiare da anni in un vuoto legislativo, di cui pare non essere consapevole nemmeno il MIUR. In un mondo in cui tutto viene pensato “su misura” dell’individuo, in cui si può “studiare attraverso l’Europa” grazie all’Erasmus (o almeno può farlo chi se lo può permettere) e in cui l’interdisciplinarietà è sulla bocca di tutti, agli studenti (adulti e vaccinati, è forse il caso di ricordarlo) è preclusa, per esempio, la possibilità di personalizzare in maniera significativa i propri percorsi formativi, di scegliere di fare un esame in un Ateneo (italiano) diverso da quello in cui si sta studiando, di costruire piani di studio che siano davvero interdisciplinari. Caro ministro, lo dico a lei perché gli Atenei, davanti agli studenti che pongono il problema, sostengono che i piani di studio liberi non sono attuabili per via di alcuni regolamenti varati dal MIUR o dall’ANVUR che, di riffa o di raffa, renderebbero impraticabili i percorsi personalizzati, anche quando formalmente previsti. Eppure, le assicuro, chi ha provato a capirci qualcosa, a chiedere a coloro che dovrebbero avere le competenze per rispondere, non è riuscito a venirne a capo. Lo chieda ai professori, ministro: chieda ai presidenti dei corsi di laurea cos’è un ordinamento didattico, se glielo sanno spiegare, qual è la differenza tra questo e la tabella del regolamento didattico, e tra questi e le tabelle ministeriali. In pochi le sapranno rispondere, e nessuno le saprà dire perché mai i piani di studio personalizzati che rispettino tabelle ministeriali e ordinamenti didattici non possano essere approvati e tutelati dalla legge (se non, larvatamente, con argomenti quali “gli studenti devono essere accompagnati per mano” – a vent’anni suonati… certo che poi, viene da dire, qualcuno sostiene che siamo “bamboccioni”).

In compenso questo 3+2, che ha mancato clamorosamente i suoi obiettivi, ha attratto migliaia di studenti che si illudono di poter diventare “ingegneri”, “filosofi”, “sociologi” o “diplomatici” in soli tre anni di studio (chissà perché facoltà come Medicina e Architettura hanno mantenuto i loro 6 e 5 anni); ha affollato le aule di studenti poco interessati alle lezioni, che continuano a ripetersi che “tutto sommato si tratta solo di tre anni, di 20 esami, e senza questo pezzo di carta nessuno mi darà lavoro”; e ha prodotto in troppi casi “esami doppione” e lacune disciplinari nei passaggi da triennale a magistrale.

 

Striscione contro il numero chiuso
Striscione contro il numero chiuso

D’altronde, il nostro sistema universitario è mal costruito già dalle sue basi, con quei test d’ingresso a crocette messi in piedi per far credere di “fare selezione”, o al più per evitare di sovraffollare le aule. Ma che Università è quella che “seleziona” gli studenti in base a un test a crocette di cultura generale, o che non li seleziona affatto? Fa un po’ ridere che agli aspiranti universitari, dopo che sono stati in grado di superare il “terrore” dell’esame di maturità, e a cui un giorno verrà chiesto di redigere e difendere una propria tesi, non venga richiesto di studiare su libri veri e di affrontare un esame orale per poter accedere al percorso universitario. So bene che molti miei colleghi sono attivi in tutta Italia per ottenere l’abolizione del numero chiuso e la conseguente eliminazione dei test d’ingresso, e credo abbiano ragione quando sottolineano l’importanza del diritto allo studio. Però dimenticano, a mio avviso, di rivendicare il diritto a uno “studio di qualità”, che come tutte le cose di qualità non va a braccetto con la facilità e la quantità, e quindi necessita anche di una selezione seria; dimenticano che le lezioni universitarie, per norma consuetudinaria che fa diritto, sono pubbliche, che può seguirle chiunque, compreso chi non ha superato il test d’ingresso, e che pertanto il diritto allo studio non viene negato a nessuno; dimenticano che, checché se ne pensi comunemente, “diritto allo studio” non è sinonimo di “diritto all’ammissione”, né, tantomeno, di “diritto alla laurea”. Il rischio che i miei “colleghi no-test” non considerano è che (come già accade) senza una seria selezione all’ingresso le università pubbliche si rivelino mediocri, e l’eccellenza si trovi, forse, solo negli Atenei privati, ai quali per ovvie ragioni possono accedere solo i figli dei facoltosi. Quello che i miei colleghi non considerano è che il titolo universitario è già ampiamente svalutato: è sotto gli occhi di tutti il fatto che spesso nemmeno i laureati trovano lavoro, o non trovano il lavoro che si aspettano, in barba a chi crede che “se non ti laurei non trovi lavoro”. Mentre chi non studia ed entra subito nel mercato del lavoro ha forse qualche chance di fare carriera, chi ha studiato si ritrova spesso a 23 anni con una preparazione scadente, nessuna esperienza di lavoro, un titolo di studio svalutato a causa della marea di laureati (vedasi voce “inflazione delle credenziali educative”) e un portafoglio sensibilmente alleggerito dalle migliaia di euro di tasse universitarie, libri e magari canoni d’affitto esorbitanti per una stanza o un appartamento da fuori sede; e magari non ha nemmeno studiato quello che voleva davvero, perché quando ha finito il liceo i suoi genitori, che leggono i giornali, gli hanno detto che “filosofia non serve a niente”, e lui li ha ascoltati.

C’è poi da dire che a salvaguardare la qualità della didattica non contribuiscono nemmeno le classifiche degli Atenei migliori e i criteri di distribuzione dei finanziamenti adottati dallo Stato. Ad esempio, tra i criteri premiali per la distribuzione dei fondi pubblici c’è la regolarità con cui gli studenti passano da un anno all’altro, ovvero, indirettamente, il tasso di promozione agli esami. Ma che qualità della didattica può garantire uno Stato che distribuisce più fondi agli Atenei che promuovono di più? Lo chieda ai professori, ministro: chieda loro quanti studenti hanno promosso o laureato anche se non avevano sufficiente preparazione. Lo chieda anche agli studenti stessi: chieda loro quanti colleghi hanno visto copiare agli esami, chieda loro cosa ricordano di quello che hanno studiato solo un anno prima, quanto gli è rimasto degli esami preparati in due settimane su manuali di illustri case editrici che, per ammissione degli stessi professori che li adottano, potrebbero essere cestinati seduta stante. Per non parlare delle più stimabili classifiche universitarie, che affermano candidamente di misurare la “qualità della didattica”, che secondo loro è rappresentata da quanta mobilità internazionale c’è in un Ateneo, quanti servizi vengono offerti, quanti studenti si iscrivono, quanti completano il percorso nei tempi previsti, quanto sono soddisfatti gli studenti e che lavoro fanno una volta laureati. Va bene, tutto bello, ma cosa c’entrano queste cose con la didattica? Un’elevata mobilità internazionale ci dice che l’Ateneo offre la possibilità di viaggiare, cosa che può essere anche apprezzabile, ma che non indica nulla in merito alla qualità della didattica: si può far viaggiare gli studenti anche insegnando loro l’arte di girarsi i pollici. Stesso discorso vale per i servizi offerti allo studente, che rappresentano un “di più” che può essere appetibile, ma che non rendono le lezioni tenute in un certo Ateneo migliori di quelle tenute in un altro. Il fatto che gli studenti completino i loro corsi di laurea nei tempi previsti e siano soddisfatti del proprio percorso formativo, poi, può voler dire tutto e nulla: c’è chi è soddisfatto se il professore assegna il 18 politico o è di manica larga, e se i tempi di studio sono regolari può voler dire semplicemente che gli studenti sono molto diligenti o, più banalmente, che i professori sono troppo poco esigenti e non bocciano a sufficienza. Anche il livello occupazionale dei laureati, che qualcosa potrebbe pure raccontare, ci dice in realtà poco sulla didattica, perché a quanto ci è dato sapere le aziende possono anche preferire capre senza cervello a studenti preparati e pensanti. Eppure migliaia di studenti e relativi genitori, ogni anno, si affidando a queste classifiche e scelgono gli Atenei “migliori”, aumentando il numero degli iscritti e quindi la quantità di finanziamenti che tali Atenei ricevono dallo Stato; finanziamenti che serviranno ad aumentare i servizi e a reclutare nuovo personale docente, cosa che gli farà ricevere ulteriori finanziamenti e che gli farà scalare ogni classifica, in un corto circuito di quel “mondo di carta” che è la qualità della didattica, di cui nessuno, in realtà, sa dire niente, se non che “i laureati di una volta erano più preparati” (e la chiamano “eccellenza”). Avanti, ministro, lo chieda in giro: molti professori le confermeranno che la preparazione dei laureati è calata, ben consapevoli di essere solo piccoli ingranaggi di un sistema e che nulla possono fare per invertire la rotta.

In conclusione, torno al “sistema 3+2”. Io non so, caro ministro, se una possibile soluzione sia quella di tornare al sistema precedente (quadriennali e quinquennali), ma certo se ne dovrebbe almeno cominciare a parlare, prendendo in considerazione ipotesi alternative. Per esempio, si potrebbe pensare di affiancare al 3+2 un percorso universitario più impegnativo, della durata di 5, 6 o addirittura 7 anni, rivolto agli studenti più convinti della scelta del percorso formativo e più motivati nello studio; e magari si dovrebbe cominciare a spiegare alla cittadinanza che non essere laureati non significa essere cittadini e lavoratori meno rispettabili di altri, che ci sono lavori nobili e socialmente utili che non richiedono tre o cinque anni di studio universitario, che non tutti sono fatti per studiare, così come non tutti sono fatti per mettere su muri. Elaborare un sistema del genere potrebbe avere qualche vantaggio: le credenziali educative risulterebbero un po’ meno inflazionate, si potrebbe mantenere il 3+2 come “percorso libero” senza numero chiuso e sperimentare una selezione più severa nel percorso unico; persino la rappresentanza studentesca e il dibattito interno all’Università ne gioverebbero: studenti che restano più a lungo in Ateneo hanno più consapevolezza dei problemi universitari e sono più interessati a risolverli. Sicuramente una riforma in tal senso non sarebbe la panacea di tutti i mali, anche perché alcuni dei problemi da me sollevati prescindono dal 3+2. Il ripensamento del sistema universitario, tuttavia, può essere l’occasione per mettere mano ai problemi della nostra università, compresi quelli su cui qui non mi sono soffermata.

Grazie per l’attenzione e buon lavoro,

 

Gilda Fusco, studentessa del Dipartimento di Sociologia di Trento

 

P.S. Una breve nota a proposito dei canoni d’affitto: caro ministro, perché nessuno propone di calmierare gli affitti per gli studenti, che in alcune città universitarie, come ad esempio Trento, fanno arricchire i proprietari a spese degli studenti, surriscaldando il mercato degli affitti? È vero che molti studenti possono evidentemente permettersi, in qualche modo, certi canoni, ma dopotutto vanno pur sempre lì per studiare; e, soprattutto, dato che gli studentati, per varie ragioni, non possono accogliere tutti coloro che ne avrebbero bisogno, l’elevato costo degli affitti non permette agli studenti meno abbienti di scegliere la sede universitaria in piena libertà. Senza contare che gli effetti del surriscaldamento del mercato immobiliare si ripercuotono sull’intera popolazione locale, costringendo molti alla vita del pendolare.



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