«Chi dice “io non sono razzista, ma” è un razzista ma non lo sa». Così recita il ritornello di una canzone salita alla ribalta negli ultimi anni, che bene rappresenta il clima di tensione aleggiante nel nostro Paese (e non solo) sul dibattito intorno ai flussi migratori del nuovo millennio.
Negli scorsi giorni l’ennesima nave delle ONG ha soccorso l’ennesima imbarcazione di fortuna piena di migranti che volevano raggiungere l’Europa, quel “paradiso terrestre” di pace, benessere e libertà che molte persone, dalle aree più svantaggiate del mondo, inseguono alla stregua di una “terra promessa”. Per l’ennesima volta, le ONG hanno battibeccato con il governo italiano (“razzista!”) sul da farsi, su quali possano essere considerati “porti sicuri”, su dove sia giusto e possibile far sbarcare i migranti in cerca di fortuna. Per l’ennesima volta il dibattito mediatico ha ridotto la possibilità di scelta ad “accoglienza a tutti i costi” o “respingimento a tutti i costi”, con una variazione sul tema che suona più o meno come “accogliamo solo i più bisognosi”.
Nel frattempo, bloccati in uno stallo perpetuo di incomunicabilità, i due schieramenti “pro” e “contro” l’accoglienza degli immigrati continuano a vivere ognuno nella sua parziale visione del mondo, senza riuscire a capacitarsi del fatto che possa esserci qualcuno schierato tra le file della fazione opposta.
Una sfida incompresa
In tutto questo, sfugge ai più la delicatezza della situazione. Nonostante sia “universalmente riconosciuto” che la sfida migratoria sia forse il problema più importante che il mondo occidentale è chiamato ad affrontare nella nostra epoca, pochi sembrano capire fino in fondo la carica esplosiva che porta con sé questa sfida, che chiama in causa valori tra loro contrastanti ma tutti indispensabili nelle nostre società; pochi si rendono conto del fatto che, se le posizioni continuano a polarizzarsi ignorando i bisogni e le esigenze degli altri, l’Europa è destinata ad impantanarsi in un clima da “guerra civile” da cui sarà sempre più difficile tirarsi fuori; pochi riescono a capire che un problema di così vasta portata, che tocca allo stesso tempo i valori alla base delle nostre democrazie, il senso di identità collettiva e la vita di tutti i giorni, non può essere risolto da un Paese spaccato in due fazioni sorde fra loro: è come se in una famiglia che deve traslocare in una nuova città, anziché cercare casa insieme tentando di capire le esigenze di ognuno, ciascuno andasse a visitare gli appartamenti per contro proprio, nella speranza che gli altri lo seguano di punto in bianco come per miracolo. Un atteggiamento non solo immaturo, ma del tutto insensato e fuori dal mondo, che rende l’obiettivo pressoché irraggiungibile.
Il dilemma dell’accoglienza non può essere risolto da una sola parte della popolazione, ignorando le esigenze, i timori e le rivendicazioni dell’altra. Come possiamo “accoglierli tutti” se metà dei nostri concittadini li percepisce come un problema o una minaccia? Come possiamo respingerli se l’altra metà dei nostri connazionali vede nel loro respingimento una deriva razzista e una grave violazione dei diritti fondamentali di cui ogni essere umano dovrebbe godere? In entrambi i casi, ne risulterebbe minata la possibilità di una convivenza pacifica sul nostro territorio: una cosa che danneggerebbe tutti, migranti e non.
Finché continueremo a urlarci contro “razzista!” e “buonista!” non si andrà da nessuna parte, e tutti resteremo insoddisfatti, perché non ci saremo avvicinati di un solo passo alla risoluzione di un dilemma che può essere sciolto solo affrontandolo in tutti i suoi aspetti, evitando tanto di barricarsi dietro un “aiutiamoli a casa loro” che rischia di rimanere solo di facciata, quanto di smaniare per i diritti umani dimenticando che questi possono essere tutelati solo ove sia presente un po’ di ordine e organizzazione razionale.
Le ragioni degli uni
I “pro-migranti”, dalla loro, hanno argomenti forti, basati su quei diritti universali che hanno forgiato gli ultimi sviluppi del nostro mondo e che non possono essere ignorati senza perdere un pezzo della nostra identità e dei nostri valori. Dopotutto, chi ha davvero il cuore di negare riparo a una persona che scappa dalla guerra, dalla fame, dalle persecuzioni? Il secolo scorso ci ha offerto una dura lezione su cosa succede quando si rimane indifferenti alle sofferenze e alle ingiustizie subite dal prossimo, e molti si sentono giustamente in dovere di imitare i loro padri o i loro nonni, quei “Partigiani in senso lato” che hanno ospitato gli ebrei in casa loro quando nessuno li voleva.
D’altronde, a rafforzare gli argomenti di questa parte di popolo, ci sono anche delle responsabilità collettive che l’Occidente non può scrollarsi di dosso come se nulla fosse: chi ha invaso, per secoli, i Paesi dell’Africa, del Medio Oriente, del Sudamerica? Chi li ha lasciati, a seguito della decolonizzazione, a “sbrigarsela da soli” in un mondo tutto nuovo e ritagliato su misura degli Occidentali? Chi ha continuato a sfruttare le loro risorse, ad armare i loro cittadini divisi e bellicosi, a fomentare rivolte sanguinarie, ad aprire o sostenere guerre in vista di obiettivi geopolitici e strategici? L’Occidente ha delle grandi responsabilità su quanto accade nei Paesi in difficoltà che sfornano nidiate di migranti, e delle gravi colpe da espiare; accogliere chi scappa è un modo di redimersi.
Le ragioni degli altri
D’altro canto, non mancano argomenti nemmeno a chi, in questa battaglia quotidiana, si schiera dalla parte della “non accoglienza”, spesso troppo facilmente bollato come “razzista”.
Oggi è passata di moda, surclassata dal mito del multiculturalismo, ma i nostri Stati, con le loro leggi comprensive di diritti e libertà, sono stati eretti facendo leva su un qualche sentimento di identità collettiva, necessaria per innescare quella fiducia e quella solidarietà diffuse senza le quali non ci sarebbero il rispetto delle leggi e la giustizia sociale che assicurano la tenuta delle nostre democrazie. E in un Paese come l’Italia, in cui storicamente la ricerca di un’identità nazionale è sempre stata problematica, attanagliata com’era e com’è dalle contrapposizioni (tra Guelfi e Ghibellini, Unionisti e Federalisti, Repubblicani e Monarchici, “Comunisti” e “Fascisti”, Cattolici e Atei), perennemente tese alla delegittimazione e alla condanna morale dell’avversario, possiamo davvero biasimare chi, già circondato da tante fratture identitarie, vede un pericolo in un’immigrazione “di massa” che porta con sé culture diverse, valori diversi, stili di vita diversi, aspettative diverse?
È vero, come sottolineano alcuni, che nel dopoguerra siamo stati migranti anche noi, e nessuno ha mai pensato di respingerci (nonostante qualche pregiudizio “razzista” ci fosse anche allora). Ma non bisogna dimenticare o omettere che noi eravamo occidentali che migravano verso altri Paesi occidentali, verso l’America, che era la “nuova Europa”, sangue del nostro sangue: un mondo con cui condividevamo le radici, che credeva nel nostro stesso Dio, che promuoveva i nostri stessi valori, che seguiva i nostri stili di vita, che indossava i nostri abiti. Sbaglia chi vede nella questione dell’identità un problema “razzista”: non si tratta di considerarsi superiori ad altri, ma di vedere negli altri delle importanti differenze, alcune delle quali insuperabili (basti pensare al ruolo della donna nell’Islam, o all’importanza che la religione riveste in certe culture, diversamente dalla nostra in cui, checché se ne dica, la religione si è sempre più “laicizzata”).
In più, ci sarebbe da sottolineare il fatto che, quando emigravamo noi, i Paesi verso cui “scappavamo” vivevano gli anni d’oro della crescita e della speranza, tipici delle nazioni che hanno appena sconfitto la guerra, in cui c’era bisogno di manodopera per costruire e ricostruire, e in cui c’erano stati tanti morti da “rimpiazzare”. Niente a che vedere con la stagnante crisi economica e valoriale in cui versano oggi le democrazie occidentali: democrazie spaventate da un “resto del mondo” sempre più forte che minaccia di metterle all’angolo, democrazie già piene di cemento e grandi opere, democrazie alle prese con un’ondata di terrorismo islamista che, sebbene per il momento sembra assopito (quantomeno in Europa), negli ultimi anni ha scosso nel profondo anche i più sinceri “multiculturalisti”.
Dove sta la soluzione?
Assodata la complessità del problema e la presenza di ragioni contrastanti, la soluzione, se c’è, non è certo “accogliamoli tutti!” o “aiutiamoli a casa loro!”, e nemmeno “accogliamoli, ma con moderazione!”.
Innanzi tutto c’è da prendere atto del fatto che tanto il respingimento quanto l’accoglienza sono false soluzioni. Se il respingimento può avere le sue buone ragioni, è a ben guardare impossibile, nel lungo periodo, impedire alla gente di scappare dalle tragedie: finché in alcune parti del mondo continueranno ad esserci guerre, fame e abusi non ci sarà muro o porto chiuso che riuscirà a fermare la fuga disperata di vagonate di esseri umani.
Parimenti, se può essere “giusto” e “onorevole” accogliere chi non fa altro che chiedere una vita dignitosa, l’idea che il problema di chi scappa dalla fame e dalla guerra si risolva favorendo il trapianto di intere popolazioni da una parte all’altra del pianeta è a dir poco ridicola: bombe e “sotto-sviluppo” non svaniscono con l’accoglienza, e anzi forse la fuga di tanti abitanti di quei Paesi, alla lunga, rende più difficile una soluzione degna di questo nome.
Abituati come siamo al mondo di pace e diritti in cui viviamo, tendiamo troppo spesso a dimenticare che le società democratiche come le conosciamo oggi non le abbiamo ottenute scappando dalla miseria, dalle ingiustizie e dalle guerre, ma combattendo in patria, ciascuno a suo modo: i contadini con le sommosse, gli intellettuali con la parola, i borghesi con il commercio. È vero anche che noi non avevamo “terre promesse” da inseguire: il resto del mondo era per noi una barbarie da conquistare e raddrizzare, non un paradiso cui chiedere accoglienza. Ma è proprio questo il punto: il fatto che oggi in Africa, in Medio Oriente, in Sudamerica, abbiano il “sogno dell’Occidente”, gli rende le cose più facili o più difficili? Agevolargli la fuga dai loro Paesi li aiuta a migliorare il “loro” pezzo di mondo o li induce a rinunciare all’impresa?
Forse chi abbia davvero a cuore le sorti di quei Paesi dovrebbe davvero “aiutarli a casa loro”, ma non in quel modo paternalista e missionario che abbiamo spesso in mente quando pronunciamo questa frase. Negli anni ’30 del secolo scorso, quando in Spagna imperversava la guerra civile contro Francisco Franco, chi ha deciso di aiutare gli Spagnoli non li ha fatti scappare dalle grinfie del dittatore, ma ha imbracciato le armi al loro fianco per tentare di sconfiggerlo. Era un aiutarsi tra “fratelli”, alla pari, con sincera convinzione e con l’obiettivo comune di rendere l’Europa un luogo migliore.
Possiamo dire davvero che oggi ci siano questi sentimenti di fratellanza sincera e combattiva, anche da parte dei più ferventi cosmopoliti, nei confronti di chi fugge dai Paesi in guerra o in carestia? Quanti tra gli “accogliamoli tutti!” e gli “aiutiamoli a casa loro!” sono disposti a rischiare la vita con loro, come fecero tanti Europei, tanti intellettuali, nel secolo scorso?
Dopotutto, si parla tanto del diritto di potersi muovere liberamente per il mondo. Ma cosa dire del diritto di vivere dignitosamente nella propria terra natale? Cosa dire del dovere di ciascuno di fare il proprio piccolo o grande sforzo per rendere il proprio Paese, il proprio pianeta, un luogo migliore?
Quello dell’immigrazione è un problema di difficile soluzione, e certamente, se la soluzione c’è, si trova nel lungo periodo, in un lungo cammino di presa di coscienza della situazione e di sincero confronto tra “opposti”, a partire dal nostro Paese. Se non cominciamo a tollerarci tra di noi, a capire le ragioni gli uni degli altri, a smettere di darci del “razzista” e del “buonista”, non solo non riusciremo a tollerare e capire neanche chi viene da fuori, ma rischiamo anche di distruggere quanto di buono siamo riusciti a costruire finora.
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