È di qualche settimana fa l’avvertimento lanciato da Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea: «L’Europa si prepari all’era delle pandemie», ha dichiarato al Financial Times. In realtà lo aveva già detto a gennaio, e, molto prima di lei, a novembre scorso, lo aveva detto Walter Ricciardi, consigliere del ministro Speranza, che sottolineava anche la necessità di una visione di lungo periodo nella gestione del virus. Ancora prima, ad agosto scorso, il virologo Giorgio Palù, attuale presidente dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), ci aveva avvisati del fatto che avremmo dovuto convivere con questo coronavirus non per mesi o anni, ma per intere generazioni. Del resto, che il virus avrebbe seguito una sorta di andamento stagionale simile a quello dell’influenza, e che per questo non sarebbe semplicemente sparito, lo si intuiva già all’inizio dell’epidemia, come avevano pronosticato sia il microbiologo Massimo Clementi sia lo stesso Palù. L’andamento dell’epidemia in Italia, al netto dei lockdown e delle altre misure di contenimento, sembra dimostrarlo. Sebbene, infatti, il virus non sia mai sparito dal nostro territorio, l’entità della diffusione ha chiaramente seguito un andamento stagionale: il picco di contagi (e ricoveri) che si è registrato tra marzo e aprile 2020 è rientrato significativamente durante i mesi più caldi, per poi riacutizzarsi tra novembre e dicembre; adesso, abbiamo una nuova “ondata” analoga a quella di marzo e aprile scorsi, cui probabilmente seguirà un nuovo periodo di tregua fino all’autunno prossimo. In questo senso, anche se le autorità scientifiche non lo hanno ancora dichiarato ufficialmente, il nuovo coronavirus è già endemico, dove si considera endemico, secondo quanto riportato sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità, un virus che è «stabilmente presente e circola nella popolazione, manifestandosi con un numero di casi più o meno elevato ma uniformemente distribuito nel tempo».

L’emergenza
Alla luce del carattere empiricamente endemico del covid e del suo andamento stagionale, continuare a trattare il coronavirus solo come un’emergenza da tamponare è una strategia fallimentare che provocherà danni inimmaginabili nel lungo periodo. Emergenza, infatti, come suggerisce la parola stessa, sta a significare «l’atto dell’emergere»: l’emergere di un problema inatteso, di una criticità non prevista, di qualcosa che era nascosto alla vista e che si rende palese. Emergenza era la situazione epidemica di un anno fa, quando, anche se c’erano tutti i segnali per aspettarsi quello che poi è effettivamente accaduto (la diffusione del virus a livello mondiale, e dunque, nello specifico, anche in Italia), il fenomeno aveva comunque carattere emergenziale non solo per la crisi scatenata negli ospedali lombardi, ma anche per il fatto stesso che quello che venne poi battezzato “SARS-CoV-2” era un fenomeno nuovo e ancora tutto da conoscere. Oggi, però, le cose sono almeno in parte cambiate, e riconoscere di trovarsi davanti a un virus endemico con un suo andamento stagionale è imprescindibile per valutare come gestire la convivenza col virus nel medio e nel lungo periodo.
La classe politica italiana (ma in generale le classi politiche di tutto il mondo) si ostinano a fare lo stesso errore, da un anno a questa parte, perseverando in una gestione dell’epidemia che appare a dir poco ingenua. L’errore è quello di aver sempre preso in considerazione lo scenario migliore possibile e, di conseguenza, di non aver avviato un processo strutturale di gestione del virus nel medio e lungo periodo. Questo è empiricamente dimostrato: tra gennaio e febbraio, quando l’OMS dichiarava lo stato d’emergenza a livello mondiale e sottolineava l’elevato rischio che il virus si propagasse per il resto del mondo, le autorità italiane, anziché mettere in piedi un serio sistema di isolamento e quarantena per chi tornava dalla Cina, speravano che il virus in fondo non sarebbe mai arrivato (scenario migliore possibile) e si mettevano dunque sostanzialmente in attesa; a metà febbraio, quando era ormai chiaro che il virus era tra noi, anziché fare tamponi a tappeto e bloccare subito tutto per evitare la diffusione del virus sull’intero territorio, speravano che la sua circolazione fosse stata minima e circoscritta (scenario migliore possibile) e si occupavano solo di cercare il fantasmatico “paziente zero”; quando, in aprile, la prospettiva del vaccino contro il covid ha smesso di essere “da qui a 2 anni” e ha cominciato ad essere un’opzione concreta e fruibile a breve, anziché attrezzarsi a fronteggiare l’eventualità che il vaccino non fosse abbastanza efficace o abbastanza sicuro o che non ne venissero prodotte sufficienti dosi e in tempi sufficientemente brevi, si affidavano alla speranza che tutto sarebbe andato bene (scenario migliore possibile) e si mettevano nuovamente in attesa; adesso che il virus è chiaramente diventato endemico e dovremo pertanto conviverci, anziché cominciare un lavoro di riforme strutturali necessarie a fronteggiare le nuove ondate della malattia o anche nuove epidemie di nuovi virus, sperano che il vaccino sarà efficace e risolutivo (scenario migliore possibile) e che una volta vaccinata tutta la popolazione la questione sarà risolta. Ma qualcuno ci crede davvero? E qualcuno crede davvero che sarà possibile vaccinare l’intera popolazione? E che questo potrà essere fatto su scala mondiale? E che potrà essere ripetuto ogni anno, come sembra che sarà necessario?
Un po’ di matematica
Per arrivare al 65% di copertura vaccinale, quella che secondo gli esperti è necessaria per raggiungere l’agognata “immunità di gregge”, bisogna vaccinare circa 39 milioni di Italiani. Per vaccinare 39 milioni di italiani, servono 78 milioni di dosi. L’obiettivo del governo è di arrivare a 300mila somministrazioni al giorno. Ipotizzando che tale obiettivo sia raggiungibile e mantenibile (ipotizzando cioè lo scenario migliore, in cui non ci siano più i problemi di approvvigionamento cui abbiamo assistito in questi mesi), per vaccinare quei 39 milioni di italiani con due dosi ci vorrebbero circa 260 giorni, e si finirebbe quindi a settembre. Potremmo forse pensare che allora ne saremmo fuori? Forse, ma la prudenza e la lungimiranza ci dicono altro.
Come infatti non si stancano di affermare ogni giorno gli esperti, il problema di avviare una campagna vaccinale in piena epidemia è che il virus, circolando, possa produrre delle varianti resistenti al vaccino. Posto che nessuno al mondo è ancora riuscito a fermare veramente la circolazione del virus, nemmeno con i lockdown più feroci, e che quindi nei prossimi mesi il virus circolerà e probabilmente muterà molte volte, l’obiettivo di una vaccinazione di massa che si riveli realmente risolutiva appare alquanto ottimista, per non dire irrealistico. Ma il problema è più profondo, perché se anche in Italia riuscissimo in questa grande impresa, resta il problema della circolazione del virus nel resto del mondo. Su scala mondiale, per raggiungere l’immunità di gregge, bisognerebbe vaccinare 4 miliardi e mezzo di persone (9 miliardi di dosi), e farlo non solo nei Paesi occidentali attrezzati, ma anche nel cosiddetto “Terzo Mondo”. Alla data del 19 marzo, i dati sulla produzione di vaccini a livello mondiale sono i seguenti: 169,4 milioni di dosi prodotte in Cina, 136,1 milioni negli Stati Uniti, 96,2 milioni in Europa, 68 milioni in India, 19,3 milioni nel Regno Unito, 11,8 milioni in Russia, 5,6 milioni in Svizzera e 1,7 milioni in Corea del Sud, per un totale di 508 milioni di dosi prodotte. Ipotizzando che abbiano cominciato la produzione a dicembre (è difficile, se non impossibile, reperire in rete questo tipo di informazioni) si tratta di circa 125 milioni di dosi al mese. Significherebbe che per produrre quei 9 miliardi di dosi servirebbero ben 72 mesi, ovvero 6 anni. Anche ipotizzando che la capacità produttiva possa essere incrementata, quanto pensiamo che possa essere grande questo incremento? Se anche si potessero raddoppiare i ritmi di produzione (ipotesi che al momento non è all’ordine del giorno, almeno nel dibattito pubblico), ci vorrebbero comunque 3 lunghissimi anni, in cui il virus continuerà ugualmente a circolare e a mutare in qualche parte del mondo. Il tutto assumendo, comunque, che in tutto il mondo ci sia la volontà di vaccinare, e che ci siano le strumentazioni e le risorse per farlo (scenario migliore possibile).
Cominciare a gestire il covid come un virus con cui convivere significa cominciare a confrontarsi con questi numeri, prendere in considerazione gli scenari migliori (comunque non rosei, come mostra la fredda scienza dei numeri) e gli scenari peggiori, e attrezzarsi per riuscire ad affrontarli. Nonostante si sapesse da subito che il virus sarebbe diventato nostro compagno di vita, nessuno si è ancora degnato di affrontare il problema in questi termini, andando oltre la visione emergenziale e pensando all’andamento sul lungo periodo. Se è stato un errore non averlo fatto finora, rifiutarsi di farlo anche adesso appare, senza usare mezzi termini, un tantino criminale.
Lo scenario migliore
Assumendo, come Paese, lo scenario migliore possibile (raggiungimento dell’immunità di gregge a settembre), resterebbe comunque il problema di come affrontare il fatto che il resto del mondo impiegherà ancora qualche anno a raggiungerla, e dunque di come gestire il contatto con i Paesi in cui il virus continuerà a circolare senza freni e in cui, si presume, nasceranno varianti resistenti al vaccino. Viviamo, infatti, in un mondo altamente interconnesso in cui “tagliare tutti i ponti” è molto difficile, se non impossibile. Quando quelle varianti nasceranno ed entreranno in circolazione, bisognerà nuovamente trovare il modo di arginarle. Mi vengono in mente tre possibili strade:
1. Si sviluppa un nuovo vaccino resistente alle nuove varianti. Questo implicherebbe un ulteriore sforzo produttivo e altri 9 mesi di vaccinazioni forsennate. In questi 9 mesi resterebbe comunque il problema di ridurre, se non interrompere, gli scambi verso quei Paesi in cui si saranno sviluppate le varianti. Questo significa non solo rinunciare ai viaggi di piacere verso quei Paesi, che tutto sommato è il sacrificio minore, ma anche ai commerci e agli scambi quotidiani (perché se in Italia, oggi, pulluliamo di varianti estere è anche per via dei Renzi e dei manager delle multinazionali che viaggiano in continuazione, per le merci che vengono spostate da esseri umani potenzialmente infetti, e via dicendo). Seguendo questa strada, dovremmo concentrare praticamente tutti i nostri sforzi, per i prossimi 3 anni almeno, nella produzione e somministrazione dei vaccini.
2. Si interrompe ogni contatto con i Paesi produttori di varianti. Questo potrebbe comportare un rivoluzionamento delle nostre vite, a seconda di quali saranno i Paesi coinvolti e di quanto siano intensi i nostri scambi con essi. Per l’alta interconnettività delle nostre economie, una scelta del genere è semplicemente impraticabile, senza un’adeguata progettazione di un’economia alternativa, più “autarchica”; e anche a livello etico implicherebbe di abbandonare a se stessi i Paesi in questione, isolandoli dal “mondo privilegiato”, ovvero quello vaccinato, cosa che verosimilmente li metterebbe in ginocchio.
3. Manteniamo i contatti e ci affidiamo alla speranza che, con le dovute cautele, le varianti pericolose non riusciranno ad oltrepassare il confine. Il che, a voler essere ingenuamente ottimisti, per quanto difficile potrebbe anche essere teoricamente possibile. Ma significherebbe affidare il benessere del nostro Paese solo a una, per quanto auspicabile, gran botta di culo.
Questo per quanto riguarda lo scenario migliore, perché se prendiamo in considerazione scenari peggiori (e nettamente più probabili) le cose si complicano ulteriormente.

La convivenza
L’errore di questi mesi è stato quello di fronteggiare il coronavirus solo nei suoi impatti immediati, e di guardare al vaccino come all’arca di Noè che ci avrebbe tutti tratti in salvo. Nel farlo abbiamo però dimenticato che Noè selezionò solo due esemplari per ogni specie, e non certo tutta la fauna vivente. In particolare, abbiamo scelto di ignorare tutte le difficoltà che si sarebbero incontrate anche potendo contare su un vaccino perfettamente funzionante e su una popolazione pronta a farselo somministrare. Ci siamo, insomma, concentrati nello sforzo di debellare un virus che già si sapeva sarebbe diventato endemico, e con cui avremmo pertanto dovuto imparare a convivere. Convivenza, preciso, non significa rassegnarsi alla situazione come è (e dunque ai meri capricci del covid), ma ricerca di un equilibrio, che può essere raggiunto solo adattando la nostra società alla presenza costante del virus e, possibilmente, attrezzandola per l’eventuale comparsa futura di altri suoi amichetti simpatici (che, come ci ha gentilmente ricordato von der Leyen, arriveranno senza ombra di dubbio).
È vero: io non sono virologa né epidemiologa, e a dirla tutta la medicina non mi ha neanche mai affascinata. Non so cosa succederà con le varianti e le vaccinazioni, né come evolverà la pandemia. Ma qui si tratta di fare una valutazione strategica che ha a che fare più con la gestione sociale e politica del fenomeno, che con quella medica. Nella fattispecie, ritengo che la strategia adottata dall’Italia sia talmente miope da poter essere definita anche cieca, e che per proteggere la popolazione bisognerebbe smettere di affidarsi all’ipotesi dello scenario migliore e cominciare a pensare a come gestire l’eventuale comparsa di uno degli scenari peggiori. Ovvero, ad esempio, che i vaccini si rivelino inspiegabilmente poco efficaci; o che non si rivelino abbastanza efficaci nei confronti delle nuove varianti; o che non si riesca a produrne dosi sufficienti a raggiungere l’immunità; o che salti fuori addirittura un nuovo virus mentre stiamo ancora cercando una quadra col primo. Non perché sarà necessariamente così, ma perché sono eventualità da non scartare e perché organizzarsi pensando che tutto filerà liscio come vorremmo è ingenuo: nella vita politica come in quella di tutti i giorni, quel che speriamo non è quasi mai quel che poi accade realmente.
La strategia
Una strategia di più lungo periodo dovrebbe prima di tutto porsi il problema dell’inadeguatezza del sistema sanitario nazionale: aumentare e ridefinire le strutture ospedaliere e cominciare una serrata formazione di medici e paramedici che, nei prossimi anni, potranno mano a mano andare a coprire le carenze che si sono fatte sentire in questi mesi. Poi bisognerebbe investire nelle scuole, perché il rischio che diventino luoghi di contagio sarà sempre in agguato: si dovrebbe quindi ridurre il numero di studenti per classe, e aumentare e ridefinire le strutture, oltre che formare i docenti che dovranno essere assunti, o trovare modi alternativi di fare lezioni in presenza, dove si può (all’aperto, nelle stagioni più calde, ad esempio). Bisognerebbe cominciare ad aiutare realmente le persone in difficoltà attraverso una forte redistribuzione delle risorse, e investire massicciamente nella ricerca di cure e nella prevenzione alternativa e complementare al vaccino (perché, non dimentichiamolo, il vaccino non è l’unica forma di prevenzione che l’uomo moderno conosce). Bisognerebbe, infine, strutturare un “ritorno alla vita” che possa essere praticabile anche nel caso in cui comparisse, per qualsiasi motivo, una variante resistente, perché è chiaro che chiusure e lockdown non sono sostenibili nel lungo periodo: non solo economicamente, ma anche umanamente.
Stanti così le cose, continuo a non capire la corsa forsennata a vaccinare l’intera popolazione, quando una possibile alternativa potrebbe essere quella di vaccinare unicamente i soggetti più a rischio e cedere le dosi rimanenti al resto del mondo, per consentire la vaccinazione anche altrove. Dicono: ma così nasceranno varianti resistenti al vaccino. Certo, come ne nascerebbero in ogni caso. Ma un conto è dover produrre e somministrare i vaccini aggiornati per l’intera popolazione, un conto è doverlo fare solo per i soggetti a rischio, ovvero quelli che possono più facilmente andare incontro alla morte e ai danni più seri e che per questo sovraccaricano il sistema ospedaliero.
Qui si sta facendo una questione di principio sui vaccini che nulla ha a che fare con la scienza e con una valutazione realistica della situazione: a quanto pare non ci sono vaccini per tutti, il virus non può essere debellato, l’immunità è difficilmente raggiungibile allo stato dell’arte e la popolazione non può rinchiudersi in casa finché il problema non sarà miracolosamente risolto. Continuare a gestire il covid in questo modo equivale a mettersi nelle mani di Babbo Natale, più che di Noè.
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